LA RESISTENZA: MITO UNIFICANTE
PER GLI ITALIANI?
Tutte le TESTIMONIANZE riportate sono tratte dal volume LE RAGIONI
DEI VINTI di Rossana Maseroli Bertolotti e Liano Fanti. Il volume di 201
pagine può essere richiesto al CENTRO
STUDI ITALIA, al costo di lire 30.000.
LE TESTIMONIANZE TRATTE DAL LIBRO E RIPORTATE NEL NOSTRO ARCHIVIO SONO
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da LE RAGIONI DEI VINTI
TESTIMONIANZE
- Nessuno di noi chiede vendetta: tutti noi chiediamo che la giustizia
si manifesti attraverso la proclamazione delle verità storiche.
LEGENDA:
Alcuni testimoni hanno fatto nome e cognome dei
responsabili dei fatti oggetto di questo studio. I nominativi sono stati
sostituiti dal simbolo (* * ).
TESTIMONIANZE di:
Prof.ssa Maddalena Bindoni, classe 1907
«Sono la vedova di Andrea Benatti, classe
1910, tenore di chiara fama. Mio marito era un eccezionale artista lirico,
con un grande possesso di scena, che aveva debuttato a Reggio, al teatro
"Ariosto" nella stagione 1937/38, cantando "Bohème".
Già nel 1935 era considerato una delle più belle promesse
del teatro lirico italiano. L'avevo conosciuto a Parma, dal maestro Pizzarelli,
presso cui studiavo pianoforte; discreta allieva, mi sono subito innamorata
di lui per la sua sensibilità, gentilezza, intelligenza. La mia
famiglia, di tradizioni un poco conservatrici, non vedeva di buon occhio
un fidanzato "artista", ma l'amore ha vinto su tutto, e così
ci siamo sposati. Per fortuna, dico ancora oggi, perché il nostro
matrimonio ci ha dato ottimi frutti, nei due figli nati nel 1938 e nel
1942.
Durante la guerra, Andrea è stato chiamato
a disposizione del Ministero della Cultura Popolare, al fine di tenere
concerti per le forze armate. In occasione del bombardamento del 7/8 gennaio
1944, per esempio, ha tenuto un concerto di beneficenza in favore delle
famiglie dei caduti: era uno studioso, un artista che passava il tempo
sugli spartiti e sui libretti di opere. Un uomo mite, che non sapeva la
violenza e neppure la vita militare. Viveva nel suo mondo d'arte e d'amore,
come del resto, anch'io. Io insegnavo in una scuola media che fu trasferita
a S. Polo; e così anche noi ci siamo spostati in quel paese, come
"sfollati".
Vicino a casa nostra abitava una famiglia di antifascisti,
i Guarnieri: due di loro sono stati arrestati dalla Brigata Nera e portati
in carcere; mio marito, mosso a compassione dalle preghiere della madre,
si è interessato presso il Comando e, per sua intercessione, i due
fratelli sono stati liberati. Andrea era Sergente maggiore, ma dopo l'8
settembre, era scappato dal Distretto presso cui era in forza e se ne stava
sempre con me a S. Polo. Studiava e cantava, ed io suonavo per lui. Eravamo
felici e sereni. La sera del 28 marzo 1945, alcuni uomini hanno bussato
alla porta con insistenza: volevano parlare con mio marito e sostenevano
di essere militi della Brigata Nera: noi eravamo sorpresi, perché
mai eravamo stati cercati e mai avevamo avuto rapporti con quella polizia
né con altre; ho aperto, sono entrati tre uomini: quello che aveva
parlato non mi era noto, ma gli altri due sì.
Con la scusa di un interrogatorio mi hanno portato
via il marito. Non l'ho mai più visto. Non so come, dove e quando
è stato ucciso: so che sono rimasta sola con due bambini di 7 e
3 anni da crescere; sola e disperata. Vana ogni ricerca.
Mia madre, ricordo, mi fece giurare di non raccontare
nulla ai figlioli; erano piccoli, ma poi, fino agli anni '50, si viveva
in un regime di paura, anche fisica, che paralizzava ogni moto dell'anima
ed inibiva la volontà. Morto Benatti uomo, non si è più
parlato neppure di Benatti tenore; la città l'ha dimenticato; il
nuovo regime ha politicizzato anche l'arte.
Una volta diventato adulto, mio figlio Antonio si
è recato da un famoso capo partigiano di San Polo, (* * ), a nostro
avviso a conoscenza di molti fatti relativi a quei giorni sanpolesi: costui,
tremante e confuso, gli ha risposto di non ricordare nulla, adducendo che
l'età e gli acciacchi gli avevano fatto perdere la memoria...
Qualcuno, dopo essere stato salvato da mio marito,
ha ventilato l'idea che fosse una spia, che avesse un certo potere nell'ambiente
militare; la verità è che Andrea Benatti era un artista benvoluto
e rispettato proprio per quel suo essere "artista" e basta, lontano
dalle cose militari e dagli ambienti polizieschi, nonché dalle stanze
del potere. Ha chiesto un favore per due conoscenti... ed ha pagato con
la morte la sua disponibilità e gentilezza...
Iddio mi ha concesso di vivere fino a 90 anni e
mai, dico mai, un giorno è passato senza che pensassi a mio marito,
a chiedermi il perché di quella assurda, ingiustificabile esecuzione,
commessa da chi lo conosceva, e lo sapeva così buono con tutti.»
Cesare Capiluppi, classe 1930
«La mia famiglia è originaria di Bagnolo
in Piano. Mio padre, Guido, classe 1886, era un agricoltore; è stato
il fondatore ed il primo presidente della cantina sociale di Bagnolo: quando,
nel 1936 uscì la legge secondo la quale nessun dirigente politico
poteva essere tale se non prendeva la tessera del Partito Fascista, mio
padre fu costretto a rinunciare dato che la votazione era stata manipolata,
ritornando a fare il semplice agricoltore. Questo per mettere luce sul
personaggio. Uomo schivo, semplice, onesto, contrario alla violenza che
ha sempre condannato, badava ai suoi affari ed alla sua numerosa famiglia;
i miei genitori hanno avuto infatti sei figli. Mio fratello Giovanni, classe
1924, in quel lontano 1945 era nel Vercellese a fare il militare, essendosi
presentato dopo il bando Graziani. Ai primi di aprile è tornato
in licenza; un giorno, il 15, per essere precisi, è andato a fare
un giro in bicicletta a Fosdondo di Correggio: non è più
tornato. Il 18 maggio, poi, alcuni uomini si sono presentati, di sera,
a casa nostra, ed hanno invitato il papà a seguirli. Volevano informazioni;
dopo tre ore è tornato, pensoso, preoccupato. Mia madre sperava
che portasse notizie del figlio scomparso nel nulla. Si è trovata
di fronte un uomo distrutto. Io non ho mai saputo il perché, o forse,
lo so. Può darsi che sia stata minacciata la sua famiglia, se avesse
parlato.
Tre giorni dopo, il 21 maggio, sono tornati; hanno
portato via mio padre, e per sempre. La nostra famiglia è rimasta
decimata, tremendamente, in meno di un mese. Mia madre aveva l'ultimo bimbo
di nove mesi che ancora allattava al seno.
Perché? Io ancora me lo domando. E lei non
venga a chiedere qui; vada da quelli che sanno, da quelli che hanno ucciso
senza motivo un ragazzo e suo padre. Sono i colpevoli che devono parlare,
non io, che porto ancora oggi sull'anima delle ferite tanto gravi. E assurde.
Sono state commesse incredibili barbarie, in nome della "giustizia".
Quale giustizia? Se si fosse trattato di un atto eroico, non avrebbero
nascosto i cadaveri alle madri disperate... No, si vergognavano talmente
tanto delle loro crudeltà, che molti, i "serial killers"
del 1945, sono stati aiutati a "riparare" in Bulgaria, in Cecoslovacchia...
nei paesi dell'est, nel paradiso comunista, dove loro, angeli del male,
si sono potuti rifare una vita. Perché non sono rimasti qui a giustificare
i loro massacri? Non erano eroi, patrioti? Il Chi sa parli è
stato una tomba della verità. Io ho sperato, per 50 anni, di sapere,
con una lettera anonima, con un segnale, dove sono stati sepolti i miei
cari: mai nessuno ha fatto un cenno. Silenzio totale. Volatilizzati nel
nulla. Come, quando, perché? E pensare che c'è in giro
tanta gente che sa, che con una parola potrebbe mettere in pace molti cuori:
perché non lo fanno? Io non ho rancori, solo vorrei ritrovare le
ossa di mio padre; perdonare lo ho già fatto, cosa vuole, dopo 50
anni... Ma mi dicano, e lo chiedo col cuore in mano, dove sono Giovanni
e Guido Capiluppi?
Alcuni anni fa ho proposto - in sede Comitato per
la celebrazione del 25 aprile - di mettere una lapide commemorativa per
tutti i caduti di guerra; i vincitori ed i vinti. Credevo che almeno la
morte li mettesse pari: no, in Comune l'hanno negato. E lei spera, crede
in un'apertura? E' giovane, se pensa questo. Ancora non sa la vita e gli
orrori del potere. L'unica possibilità di un'apertura sarebbe quella
che gli assassini, in alcuni casi, dicessero: "sì, ho sbagliato";
sappiamo bene che i sicari spesso uccidevano senza neppure sapere chi sarebbe
stata la vittima: dall'alto veniva un ordine - c'è da far fuori
il tale - che veniva immediatamente e freddamente eseguito. Freddi e cinici
portatori di morte agli ordini (per una sconsiderata idea di giustizia
-pensi che giustizia -) di capi spesso ignoranti, rozzi, amorali. Ma nessuno
tira quel filo della verità: sa perché? Perché c'è
il rischio che tirando un capo della matassa si svolga tutta, mettendo
sul tavolo della storia delle follìe ben coperte per mezzo secolo!
Ma per parlare (perché chi sa, racconti), al fine di una autentica
pacificazione, ci vuole dignità. E chi ammazza e poi scappa, non
ne ha. Sa di aver commesso un grave reato, ecco perché sparisce
dalla circolazione, oppure tace per sempre, costituendo quella famosa maglia
di omertà, di cui se si tira un filo... Quindi, per sapere qualcosa,
vada da coloro che in quegli anni bui erano i capi; loro sanno, non io.»
Dott. Enrico Capiluppi
«Ho poco da aggiungere a ciò che
ha già detto mio fratello, se non che la calunnia era la tecnica
di solito usata da chi manipolava il potere per eliminare chi era di ostacolo
ad una futura, e più strutturata, azione di dominio. Per giustificare
morti assurde bastava che qualcuno dicesse: "...Era una spia... oppure...
era uno di quelli buoni...!". O, più semplicemente, bastava
lavorare un podere di proprietà, poche biolche, per essere considerati
"agrari", possidenti... e meritarsi la morte, spesso dopo sevizie
e torture. Nella mentalità corrente il piccolo borghese, il bottegaio,
andava depredato; razziato. Come in questo caso: era la primavera del
1944, e tornavo da scuola in bicicletta col mio compagno di liceo Franco
Bertolani. A metà strada siamo stati investiti da uno spezzonamento,
e, purtroppo, Franco è stato ucciso. Alcuni giorni dopo, i compagni
della nostra classe volevano ricordarlo con una Messa; io allora sono andato
a casa sua, a Mancasale, dove i suoi genitori gestivano la privativa; la
madre, quando mi ha aperto la porta, era pallida, agitata: mi ha fatto
entrare, ed in cucina ho visto due partigiani i quali mi hanno perquisito
e costretto ad andarmene con modi sgarbati. Poco tempo dopo gli stessi
le hanno vuotato la privativa!
Finita la guerra, le cose sono anche peggiorate:
la diffidenza, il sospetto per chi non era (o dimostrava di essere) in
odore di comunismo si tagliava con il coltello.
Alla mamma, già privata di un figlio e del
marito, spesso dicevano: "...Si tenga cara i suoi figli...".
Minacce neanche tanto velate, a lei che non voleva iscriversi alla "Federterra"...
Nel 1947 frequentavo l'Università a Bologna;
più volte i Carabinieri mi hanno avvisato che ero tenuto sotto controllo,
dai comunisti del paese, perché ero considerato elemento pericoloso.
E questo perché ogni giorno prendevo il treno!
Nel 1948 mio fratello ed io, gli unici di Bagnolo
a non essere iscritti al "Fronte della Gioventù", siamo
stati allertati, da alcuni amici, a non uscire di sera in bicicletta! Questi
erano i sistemi democratici dei tempi: peccato che la storia dei vincitori,
manipolando la verità, si sia dimenticata questi incredibili comportamenti.
Ma ci sono stati, e mi fa piacere ci sia qualcuno
che, con coraggio, ne scriva.»
Gina Vinsani, classe 1926
«Mio padre, Tullio Vinsani, classe 1894, era
commerciante di granaglie. Durante la guerra era stato richiamato ed in
quel periodo l'attività era stata sospesa. Con la mamma e mia sorella
abbiamo tribolato per vivere. E' tornato a casa nel 1943 ed ha ripreso
il suo lavoro; noi non abbiamo mai avuto noie da nessuno; né dai
fascisti prima, né dai partigiani durante la Liberazione. Il
18 maggio 1945 mio padre si è recato al mercato a Reggio, in bicicletta.
Sbrigate le sue faccende, intorno alle ore 13 era sulla strada del ritorno.
Alcuni l'hanno visto, in bicicletta, pedalare tranquillo, alla sua destra.
Non è mai più tornato a casa. Perché l'hanno ucciso
così? Cosa aveva fatto di male, se il 25 aprile e le settimane
seguenti noi si lavorava tranquilli nei campi, senza minimamente pensare
di andare via, di nasconderci? Non c'era proprio niente di cui vergognarsi;
eravamo lavoratori e gente onesta che mai aveva fatto male ad alcuno. Perché
allora? Sto ancora aspettando che mi rendano il corpo di mio padre: poi
morirei tranquilla. Ho insegnato ai miei figli il perdono e la tolleranza.
Siamo credenti. Io prego perché, almeno uno, prima del passaggio
finale, si redima ed abbia il coraggio di dire la verità, liberandosi
così la coscienza di pesanti macigni. Sempre che ci sia in certa
gente la coscienza.»
Ferdinando Burani, classe 1941
«Già dalla fine degli anni '20 mio
padre Aldo, classe 1902, nativo di S. Giovanni di Novellara, gestiva in
Mancasale, proprio in questa casa, un emporio con annessa osteria-trattoria.
Nel negozio aveva di tutto, come usava allora: alimentari, cartoleria,
addirittura ferramenta... Tutto per tutti, e mio padre era contento
quando poteva essere utile. Mi raccontava la mamma che, all'occorrenza,
sostituiva il cursore, il postino... nel senso che la nostra casa era il
punto di riferimento dell'intera frazione. I miei genitori erano sempre
insieme, nel lavoro e nel poco tempo libero; avevano generato sei figli,
ed io, che ero l'ultimo nato, godevo dell'affetto e della tenerezza di
tutti. Stavamo bene, ci volevamo bene. Tutti si contribuiva alla gestione
della trattoria e del negozio; tutti in allegria. Poi, un brutto giorno,
credo il 25 aprile si è fermato davanti a casa un autocarro; sono
scesi due uomini che hanno invitato mio padre a seguirli al Comando partigiano
per delle informazioni. Senza alcun sospetto, dato che sul camion mio padre
aveva visto altri uomini che conosceva, si è tolto il grembiule
e li ha seguiti. Non è più tornato.
Mia madre era incinta del settimo figlio; non ha
retto al dolore e, con parto prematuro, ha dato alla luce un bimbo
morto. Noi ci siamo stretti intorno a lei, ormai unico sostegno della famiglia.
Nel maggio 1945 questa casa, per estremo oltraggio,
è diventata "Casa del Popolo". Sì, in una stanza
a pian terreno, i "compagni" avevano allestito una cellula del
partito. Noi, per andare a letto, dovevamo passare tra le bandiere rosse.
Questo fino ai primi del 1960. A dire il vero ci
pagavano un piccolo affitto, ma avere in casa persone che forse sapevano
chi aveva ucciso nostro padre è stato un poco difficile. Mio
padre Aldo era iscritto al Partito Fascista Repubblicano, è vero,
ma non aveva certo né l'interesse né il tempo di andare a
fare sfilate in divisa, o, tantomeno, di partecipare attivamente alla vita
politica. E allora, perché ucciderlo?
Chi ha dato l'ordine di eliminarlo e di far scomparire
il suo cadavere? Vede, i sicari provocano in me anche pena, ma i mandanti
solo disprezzo. Perché la manovalanza è spesso rozza, ignorante...
non sa bene quello che fa... va alla cieca, e alla cieca ubbidisce, come
un bue. Ma chi comandava, in quel 1945, non può essere perdonato,
perché aveva un fine preciso: quello di eliminare dalla circolazione
chi apparteneva ad una classe sociale appena al di sopra dei mezzadri,
degli operai...
Solo i proletari avrebbero dovuto andare al potere,
e gestirlo... Per fortuna tutto questo non è avvenuto, perché
oggi l'Italia si troverebbe nelle condizioni dell'Albania o degli altri
paesi in cui ha avuto il potere il Partito Comunista: cioè nella
miseria e nella disperazione.
Mio padre era un lavoratore, un uomo onesto e generoso
con tutti. Se male ha fatto, vorrei sapere quale e a chi. Mi rassegnerei.
Ma così... senza neanche un pezzo di terra consacrata in cui riposare...
Questo ha spezzato il cuore di mia madre e rovinato, per anni, la nostra
vita. Aspettiamo ancora un cenno, una segnalazione. Ma dubito che da quelle
persone possa giungere un moto di umanità: sarebbe una contraddizione
in termini.»
Einarda Sezzi, classe 1921
«Sono nata a Massenzatico nel 1921. Mio padre,
Paolo, faceva il casaro, ed era molto bravo nel suo lavoro. Infatti, dopo
aver appreso il mestiere a Puianello, dove era nato, e a Pratofontana,
aveva aperto il caseificio "Il centro", a Massenzatico, appunto,
vicino alla villa dei Camuncoli, intorno al 1913. Con alcuni soci ha impiantato
questa latteria sociale, che allora era all'avanguardia, perché
aveva sostituito la caldaia a legna con quella a vapore. Ricordo che ancora
bambina, vedevo appeso nel soggiorno di casa mia il ritratto di Camillo
Prampolini, di cui mio padre era fervente ammiratore. Come tutti, anche
il papà aveva preso la tessera del Partito Fascista, per poter lavorare;
io stessa sono stata piccola italiana, poi giovane italiana... insomma,
andavo a scuola e mi adeguavo alle necessità del momento. Per dovere,
non per piacere, perché mi innervosivano i sabati fascisti... preferivo
giocare con le mie amiche, che già dall'infanzia, erano Isotta Miari,
andata poi in sposa all'avvocato Pier Carlo Cadoppi, Vilma Casoli, Serena
Miselli e la farmacista Gisella Antolini.
Si viveva discretamente; io aiutavo mio padre a
fare il formaggio, ero esperta anche della parte chimica, e poi, a tempo
perso, aiutavo la mamma che era sarta. Come tutte le ragazze mi piaceva
andare ben vestita, e ci riuscivo, perché avevo la sarta in casa,
e poi, a dire la verità, siccome dicevano che ero carina... uno
straccetto mi stava bene addosso!... Credo di essere stata invidiata dalle
ragazze che non potevano avere quello che avevo io. Però non sono
mai stata vanitosa, diciamo meglio, presuntuosa. Ero una giovane felice,
che viveva in una famiglia benestante perché lavorava tredici ore
al giorno, con tre adorabili fratelli e dei genitori che non ce ne guastavano
una.
Mio padre era un uomo serio: non andava all'osteria,
non fumava... sempre con la famiglia, a casa, a goderne le gioie. La domenica
per me era il giorno più bello, perché, con le solite amiche
si andava in giro in bicicletta, o alla chiesa a vedere le commedie, recitate
dai ragazzi di Massenzatico; giorni felici, finché, inaspettata
e crudele è scoppiata la guerra. Verso la fine del 1943 mio fratello
Azio è scappato dal collegio per andare nei partigiani, in montagna,
nella brigata «Saltini». Ricordo ancora che la sua ragazza
era la figlia di Vittorio Saltini. I tempi erano mutati, erano diventati,
più difficili: ancora si andava al ballo, sempre accompagnata dalla
nonna, ma assai più raramente.
Ai primi di maggio 1944 era accaduta una cosa che
ha segnato profondamente la mia vita: ho conosciuto il Tenente Vladimiro
Cacciari, un uomo di bellezza straordinaria; parlo di una bellezza non
solo esteriore, ma dell'anima. Buono, gentile, garbato, mite, dolcissimo:
l'uomo che ogni ragazza sogna di incontrare... il principe azzurro, insomma.
Il Tenente Cacciari era arrivato a Reggio con la 2° Squadriglia Caccia
dell'Aeronautica Repubblicana. La Provincia, come consuetudine, cercava
ville disponibili per l'alloggiamento, la mensa ed altri servizi degli
Ufficiali e Sottufficiali costituenti gli equipaggi della squadriglia stessa.
E così viene requisita la villa dei Camuncoli, vicina alla mia abitazione.
In casa di Curzio Lasagni si dava una festa; ci
sono andata e vi ho conosciuto colui che doveva, di lì a poco, diventare
mio marito. Il Tenente Cacciari era laureando in Economia e Commercio ed
anche in Lingue e Letterature straniere, all'Università veneziana
della Ca’ Foscari.
Parlava correttamente francese, inglese e tedesco.
Come premio di maturità, aveva chiesto al padre, commerciante di
calzature pesarese, di ottenere il brevetto da pilota. Ed è stato
proprio questo brevetto che più tardi, nel 1944, ha fatto sì
che venisse mandato a fare il militare nell'Aeronautica. Ammetto che è
stato un colpo di fulmine, tra noi: abbiamo ballato tutta la sera e da
quel giorno eravamo sempre insieme. L'ho sposato con rito religioso il
27 agosto 1944, durante una sua licenza. Ci siamo poi trasferiti ad Albino
di Bergamo, dove abbiamo vissuto una totale felicità. Nel marzo
1945 mia madre si è ammalata; abbiamo deciso quindi di venire a
Massenzatico per trovarla; era ricoverata a Rivalta, dove si trovava la
casa di cura del dott. Chiesi. Il pomeriggio del 9 marzo, in bicicletta,
vado in tale casa di cura; mio marito era rimasto a Massenzatico con mia
sorella. Sono arrivati tre uomini, tra cui un partigiano che mia sorella
ha riconosciuto. Volevano parlargli; l'hanno fatto scendere, hanno preso
la bicicletta di mio fratello e l'hanno portato via. Dopo due ore si sono
sentiti degli spari. Provenivano da un podere nella zona tra Massenzatico
e Fosdondo.
Non l'ho più visto. Per otto anni ho passato
tutti i campi di concentramento possibili, sono andata da tutti i comandi
partigiani. Nessuno sapeva darmi notizie; qualcuno mi diceva che l'avevano
portato in montagna e consegnato agli alleati...
Nel 1953 viene pubblicato su di un giornale cittadino
che un contadino, mentre ara, trova i resti di due uomini: uno di un messo
comunale e l'altro di un uomo giovane, alto un metro e ottantacinque, con
al collo una catenina con i dati: quelli di mio marito.
Dopo il ritrovamento i Carabinieri hanno ricevuto
una lettera anonima; vi si facevano dei nomi. Convocata, non ho detto nulla.
Avevo solo dei sospetti, non delle certezze. Ricordavo solo che quando
c'era stato uno spezzonamento, mio marito era corso al Campovolo per aiutare
i feriti, che aveva trasportato all'ospedale con la macchina del gruppo...
prodigandosi fino all'ultimo. Era un uomo profondamente cattolico, non
iscritto al partito. Perché è stato così barbaramente
ucciso?
Una cosa rammento: prima di sposarci, nel giugno
1944, tre partigiani lo avevano fermato, davanti a casa mia, dicendo che
dovevano parlargli; lo hanno invitato in casa di (* *) e gli hanno proposto
di entrare in clandestinità. Al suo diniego, gli hanno preso il
portafogli e la pistola di ordinanza, e l'hanno spedito in malo modo. Può
avere importanza questo episodio? Non lo so. Mi sono tormentata per anni,
chiedendomi sempre: perché... perché? Non so ancora darmi
risposta, anche se alcune indiscrezioni di amici e conoscenti hanno fatto
un poco di luce sulla vicenda. Certo non si è trattata di una morte
di guerra, ma di qualcosa di molto personale. Un regolamento di conti...
barbaro... assurdo. Il nome degli assassini è ancora avvolto nel
mistero: la loro vigliaccheria no.»
Rag. Enrico Copelli, classe 1934
«Mio padre, Alberto Copelli, è nato
a Campagnola il 4 giugno 1889; di famiglia modesta, - il nonno infatti
esercitava il mestiere di fornaio - è rimasto orfano presto. Ha
avuto un'adolescenza non facile, di lavoro e poche soddisfazioni. Durante
la 1° Guerra mondiale ha fatto l'autista di mezzi corazzati. Nel 1918
è tornato a casa, ed ha deciso di aprire un bar nella piazza centrale
di Campagnola, il bar "Italia", gestito insieme alla nonna. Le
cose andavano benino; il bar era sempre frequentato, anche perché
mio padre faceva personalmente le bibite, degli stuzzichini... e poi, al
piano di sopra, c'era la sala da biliardo... per riscaldare le sere fredde
e monotone della bassa reggiana. In quel bar aveva messo tutto quello che
aveva, e per pagare i debiti lavorava anche 16 ore al giorno! Per renderlo
ancora più piacevole aveva comperato la radio, così, tenuta
ad un discreto volume, poteva essere sentita anche da chi era seduto fuori,
magari a godersi un sorbetto o a bersi un caffè. A dire il vero
era frequentato da una clientela piuttosto scelta; vi andavano non voglio
dire i ricchi del paese, perché era aperto a tutti, naturalmente,
ma in prevalenza vi entrava la piccola borghesia paesana. Mio padre era
orgoglioso dei suoi clienti; amava andare ben vestito, e per questo ricordo
che la mamma a volte brontolava perché andava a comperare abiti
a Bologna... era sempre ben rasato, fresco, gradevole. Questo il suo stile.
Avendo egli fatto l'autista, a militare, ed avendo imparato a guidare molto
bene, veniva spesso chiamato per accompagnare certe persone ricche a Reggio
o dove credevano; sempre educato, gentile, impeccabile. Per esempio, era
solito accompagnare a Montecatini un ricco agrario di Campagnola che lì
andava a fare le cure termali.
Per dire la verità, anche alcuni nostri parenti
erano piccoli proprietari terrieri; piccoli, dico, nel senso che erano
padroni del loro podere. Quando agli inizi degli anni ‘20 ci sono stati
gli scioperi contadini, mia madre fu molto scossa... ci sono state, anche
nei confronti di alcuni nostri parenti delle provocazioni... dei disturbi...
niente di grave, ma sufficiente per intimorirli; ed è stato così
che mio padre ha aderito subito al nascente fascismo, facendo anche la
"Marcia su Roma" nel 1922.
E' stato uno dei primi fondatori dell'E.I.A.R. e
del T.C.I. (Touring Club Italiano). Le cose andavano bene, per noi: nel
frattempo il papà si è sposato, e siamo nati in tre. Una
famiglia tranquilla e serena, che viveva una dignitosa vita di campagna.
Nel 1936 ha venduto il bar, per motivi di salute ed ha fatto, per alcuni
mesi, l'autista, salvo essere poi assunto alle officine meccaniche "Reggiane"
in qualità di motorista. La sua malattia è poi peggiorata,
tanto che è stato poi collocato a riposo.
Nel 1943 era pensionato; non ricordo che facesse
attività politica. So che ha lavorato, poco, nella TODT; poco, perché
il suo male non gli permetteva di fare sforzi.
La maretta, a Campagnola, è arrivata nell'ottobre
1944. I partigiani avevano attaccato il presidio locale della Brigata Nera,
con lo scopo di far disertare il segretario del Partito Fascista Repubblicano
che era diventato un loro collaboratore. La rappresaglia seguita, costava
la morte di due partigiani. Da quel momento, vivere diventava sempre più
difficile; un po' meno per noi, però, perché mio padre non
faceva vita politica. La sera del 6 novembre 1944 Dino Lodini, amico di
mio padre, è stato prelevato dai partigiani e portato sotto le nostre
finestre. Chiamando a gran voce, cercava di convincere il papà a
scendere; erano le 10 di sera. Mia madre seguiva il marito per le scale,
pregandolo di non andare: c'era infatti qualcosa di sinistro nella voce
di Lodini, di innaturale, che non convinceva, credo, i miei genitori. Quando
mio padre ha visto, nel cortile, che Lodini era sparito, si è accorto
dell'inganno, e di corsa, ha cercato di risalire le scale per rifugiarsi
in casa. Ma una raffica di mitra ha solcato l'aria, il silenzio di quella
sera ottobrina, ferendo a morte Alberto Copelli. E' spirato davanti
ai miei occhi, gli occhi terrorizzati di un bambino di dieci anni. Per
due anni ho portato la sua camicia; non volevo mai levarla, perché
mi sembrava di avere addosso un poco di lui. Se so chi l'ha ucciso? Sì,
ma non voglio dirlo; posso solo confermare che mia madre, di sfuggita,
ha riconosciuto un certo (* *)... altro non voglio dire.
Perché hanno ucciso mio padre? Guardi, certamente
era fascista. Ma altrettanto certamente non ha mai fatto male ad alcuno
o provocato la morte di chicchessia. So che negli ultimi mesi andava con
un suo amico, certo Afro Boccaletti, a fare la guardia ai pali della luce,
perché i partigiani cercavano di atterrarli. Questo, il suo "lavoro"
politico. Ricordo che la mamma brontolava, per questo, ma lui scherzava
con lei, dicendole che non c'era alcun pericolo, che non avevano mai sparato...
era per lui un modo di stare con gli amici, qualche sera, e dare il suo
modesto contributo al partito... un contributo da uomo gravemente ammalato
e inadatto ad altri più pericolosi o sgradevoli servizi...
Per anni, mia madre è andata alla foglia.
Doveva mantenere tre bambini. Non ho mai visto mio padre in divisa. Alcuni
suoi amici, fascisti come lui, ora godono di laute pensioni e di una vita
più che dignitosa; uno di loro, (* *), è poi diventato partigiano...
La conversione è stata questa: ha accompagnato i partigiani al Presidio
fascista, si è fatto aprire ed ha permesso, in questo modo, il disarmo
dei suoi militi...
Non è un amaro commento, mi creda; è
una considerazione.
I suoi figli l'hanno visto invecchiare.
Mio padre non ha tradito, invece; ed ancor oggi
mi chiedo il perché di quella morte atroce. Atroce perché
non è morto sul colpo: ha impiegato alcuni minuti a spirare, tra
dolori lancinanti, davanti agli occhi terrorizzati di sua moglie e dei
figli ancora piccoli... ha capito, e quindi deve essere stato doppiamente
atroce.
Chi lo ha tradito lo conosceva bene, era stato suo
"amico", aveva creduto nella stessa idea, avevano frequentato
lo stesso ambiente; sapeva che mio padre non è mai stato un picchiatore,
un violento. E' stato un fascista della prima ora, questo sì, quasi
benestante, che ha creduto come tanti, a Campagnola... Era forse considerato
un agrario? Un possidente? Chi lo ha ucciso sa bene che non era vero:
ha sempre vissuto del suo lavoro, e quante ore nel bar! Dalle sei di mattina
alla mezzanotte! Perché, allora? Magari me lo dicesse, mi metterei
tranquillo, se sul capo di mio padre pendessero, documentate, delle accuse
serie. Ma così... ormai sono anziano anch'io, ma quella notte
del 1944 entra ancora nei sonni a tormentare, a provocare dolorosi sussulti
e strette al cuore. Io non odio nessuno: vorrei solo sapere, da colui che
ha causato la sua orrenda morte, il perché. Perché era fascista?
Ma chi l'ha tradito non poteva lanciare pietre: perché aveva fatto
lo stesso "peccato".»
Luisa Bertolucci, classe 1933
«Mio padre si chiamava Mario Bertolucci, classe
1895. Già intorno agli anni 1921-22 aveva la tessera del Partito
Fascista; ci credeva: non credo abbia fatto la marcia su Roma. So che era
un cascinaio, come il nonno, e che lavoravano in proprio, nel comune di
Novellara. Erano benestanti, per quei tempi, ma il loro benessere proveniva
da una giornata lavorativa di dieci ore...!
Le cose, con gli anni sono cambiate, economicamente,
intendo, e così mio padre da proprietario diventa dipendente, e
va a lavorare - sempre come cascinaio - a Noceto di Parma. Matrimonio e
quattro figli: una famiglia pesante da mantenere. Ricordo che tornava a
casa solo il sabato, in bicicletta, e quando noi bambini lo vedevamo arrivare,
dal ponte, gli correvamo incontro felici di rivederlo e smaniosi di passare
la domenica con lui. Lui prendeva sulla canna della bici la più
piccina, a volte anche me, e così si arrivava nel cortile. Eravamo
una famiglia felice, come tante in quella bassa reggiana però già
tormentata da diverse opinioni politiche, dalla guerra civile che serpeggiava
tra la gente, pronta a manifestarsi, con tanta crudeltà, nella tarda
primavera. E così il giorno 23 aprile 1945 arrivano a Novellara
gli americani, le truppe di liberazione; tutta la gente è corsa
in piazza per vedere, attratta dalla curiosità: anche mio padre,
insieme ad un vicino di casa suo amico, Piero Lombardini. Verso le 17,
hanno bussato alla nostra porta due uomini: uno, sconosciuto alla mamma,
mentre l'altro le era noto; cercavano mio padre. Quando il papà
è tornato, sotto sera, saputo dalla mamma che un conoscente lo cercava,
ha ripreso subito la bicicletta ed è andato in piazza per trovarlo
e sapere cosa voleva. Non l'ho mai più rivisto. Verso sera la mamma
ha saputo che era stato condotto nella Rocca di Novellara (improvvisate
prigioni) insieme al suo amico Piero Lombardini, piccolo proprietario terriero,
ed al fratello di questi, Leonida. Mio fratello Giuseppe è corso,
allora, alla Rocca per portargli da mangiare; lo ha visto, gli ha parlato.
Sembrava tranquillo; tanto che gli ha detto: "Non venire, domattina,
a portarmi la colazione, perché verso le 11, dopo un breve interrogatorio,
mi lasceranno libero". Così credevamo, così speravamo.
Nostro padre non è mai stato un militare, ricordo che metteva la
divisa solo per le feste; era un uomo tranquillo, che amava il lavoro e
la sua famiglia.
Cosa avrebbero potuto fargli?
La mattina seguente mio fratello Giuseppe va sul
ponte della Rocca verso le 10,30 per tornare a casa col padre; intorno
alle 11 un camion, chiuso, e guidato da un certo (* *) si allontana verso
Fosdondo a discreta velocità. Siamo rimasti sorpresi ed allora la
mamma è andata dal parroco don Sante Pignagnoli, a chiedere notizie.
Siamo rimasti inorriditi quando abbiamo saputo che tutti gli uomini fatti
salire su quel maledetto camion erano stati uccisi vicino al cimitero di
Fosdondo: si era già alla fine di maggio, e così, per motivi
igienici, non ci hanno permesso di scavare, per recuperare i cadaveri dei
nostri cari. Solo in ottobre la mamma ha potuto riesumare le povere
ossa del marito, "sepolto" dentro al cimitero di Fosdondo, in
una fossa lunga e stretta scavata dai prodi partigiani. Gli mancavano le
scarpe e l'orologio da taschino, tanto caro al papà. Forse era
fascista anche quello e quindi andava distrutto! Per alcuni mesi, sotto
le nostre finestre passavano e ripassavano i partigiani più politicizzati
di Novellara: si fermavano, sembravano voler ascoltare le nostre parole.
Noi eravamo terrorizzati. La mamma, rimasta nella povertà, nell'indigenza,
ha dovuto riprendere a fare la sarta da uomo; ma il lavoro non era sufficiente
a far crescere tre figli (una si era sposata); so che abbiamo patito, e
ancora di più per la mancanza di nostro padre; la mamma è
improvvisamente invecchiata di vent'anni; ricordo che sembrava una larva,
senza più voglia di vivere. Noi ragazze ci portiamo ancora quella
ferita sulla pelle e nel cuore. Perché l'hanno fatto? Vorrei
saperlo, sapere se mio padre ha ucciso o fatto uccidere qualcuno; se così
fosse mi metterei l'animo tranquillo. Ma so bene che non è stato
un assassino: assassini, e vigliacchi, sono stati loro. Chi? Io lo so.
Sono di Novellara.»
Giuseppe Simonazzi, classe 1921
«La mia famiglia è originaria di Borzano
di Albinea, dove mio padre, Angelo, faceva il falegname. Eravamo sei fratelli,
di cui quattro maschi, i quali aiutavano il babbo in bottega. Mario, nato
nel 1920, era il più dotato per gli studi, e così ha frequentato
il seminario di S. Rocco, a Reggio, dove ha conseguito la licenza ginnasiale.
Profondamente religioso, egli insegnava il catechismo ai giovanissimi della
parrocchia, gli "Aspiranti" della Azione Cattolica. Nel 1927
ci siamo trasferiti a Montericco, nella frazione di Vitala, e Mario è
andato a lavorare, come contabile, alle officine "Reggiane",
in città. Lì ha conosciuto l'ing. Piani, suo superiore, che
diventerà poi membro del C.L.N. e primo segretario del Movimento
Cristiano Democratico di Reggio.
Dopo l'8 settembre, le "Reggiane" cadono
in mano ai tedeschi, che decidono di trasferire macchinari ed operai in
Lombardia, zona più lontana dal fronte e perciò più
sicura. Mario, per non lasciar la famiglia, è costretto a licenziarsi;
ma siccome non intendeva neppure arruolarsi nella R.S.I., si è
nascosto ed ha fatto il clandestino per alcuni mesi. In aprile 1944 conosce
il dott. Luigi Ferrari del Comando Piazza e, dopo aver meditato seriamente
sul da farsi, decide di andare con i partigiani.
Questo avviene in maggio, quando sale in montagna
col nome di battaglia di Azor; e va dritto al Comando di Brigata, al comando
di Miro e di Eros.
Mario viene assegnato al gruppo guastatori, per
la preparazione di mine e di bombe da usarsi nelle azioni di sabotaggio
contro i tedeschi e i fascisti. Appena può, viene a casa, anche
per poche ore. Noi siamo sempre stati una famiglia molto unita, ma
il rapporto di Mario con la mamma era davvero particolare. Mio fratello
raccontava che in montagna la disciplina era poca, mentre tanta era la
propaganda comunista. Troppa, anche a detta dell'on. Marconi, che scriverà
una lettera, ormai famosa, al C.L.N. provinciale, elencando i motivi di
dissenso dei cattolici nei confronti dell'operato garibaldino.
Durante una scappata a casa, Mario raccontava
alla mamma la sua perplessità sulla "Lotta di Liberazione";
non gli parevano quelli i metodi per costruire una nuova Italia, libera,
ma piuttosto le premesse per finire sotto un'altra dittatura. Decide,
allora, di non tornare in montagna, ma di fermarsi a Borzano, insieme ad
Ivo De Maria, Mario Manfredi, Amos Spadoni e di formare con loro due nuclei
operanti: uno a Borzano ed uno a Montericco. Alla fine del mese altre due
squadre, operanti ad Albinea e a Montericco alto, si uniscono alle prime;
in tutto agiscono una trentina di uomini (1).
Certo è che la Resistenza armata nella zona
di Albinea è opera di Mario, il quale ne diventa il capo naturale,
e che riesce a convincere due amici carabinieri (De Maria e Manfredi) a
farsi partigiani abbandonando l'Arma.
Mio fratello ha creduto nella Resistenza ed anche
nella lotta armata contro i tedeschi, ma condotta con le dovute maniere.
Egli accompagnava i suoi uomini a conoscere il territorio circostante,
che conosceva benissimo: sentieri, boschi, macchie, caseggiati, perfino
i fossi... e li addestrava, inoltre, alle piccole azioni di sabotaggio.
Tutto questo fatto con spirito di umiltà, cercando di danneggiare
al minimo la popolazione ed i luoghi. Mario sostenne che la guerra riguardava
solo i militari; certi atti, procurando solo inutili sofferenze ai civili
(le rappresaglie) erano dannosi, prodotto di incapacità e di ignoranza.
Nel settembre ‘44 Mario va a Carpineti per incontrare
un commissario garibaldino, suo amico, conosciuto a «Lama Golese»;
non trovandolo, gli lascia un biglietto, nel quale lo prega di non mandare
pattuglie nella zona di Albinea... dato che ci sono frequenti visite delle
Brigate Nere... a causa di alcuni uomini di Lince che si sono troppo esposti...
La richiesta, saggia, viene male interpretata dal
comandante Miro che così la commenta ironicamente ad Eros : "...dalla
lettera di Azor, risulta che i signori sappisti ci tengono molto alla loro
tranquillità...". Caratteristica mentalità di certi
capi della lotta armata, come sostiene, nella sua lucida ed attenta biografia
di mio fratello, lo storico Sereno Folloni.
Mario non vuole entrare in crisi con la popolazione
locale, dato che intende la Resistenza in modo diverso da quella, troppo
politicizzata, dei comandanti, commissari e dirigenti vari. Comunque, egli
è sempre stato in prima linea, alla testa dei suoi uomini quando
le azioni erano più pericolose; con coraggio, ma soprattutto con
umanità egli aveva inteso la Resistenza. E con onestà: perché,
purtroppo, c'erano delle squadre che di notte, venivano e assaltavano -
armi in mano - le famiglie di contadini (ma non solo) per rubare denaro,
generi alimentari ed altro, che non venivano però inviati alla intendenza
partigiana, ma spartiti tra gli uomini stessi. Questo genere di atti erano
messi in opera, per lo più, da squadre provenienti dalla V°
zona, da Ca’ de Caroli. Azor ha sempre cercato di impedire queste
razzìe, anche con le armi; e questo comincia a creare, nei suoi
confronti, astio, risentimento...
A fine gennaio 1945 mio fratello viene chiamato
alla vice-direzione della 76° Brigata S.A.P., quella che comprendeva
i territori a sud della via Emilia. Si decide di cambiare il suo nome di
battaglia: da Azor a Salardi. Ma perché questa chiamata? Per promuoverlo,
o per allontanarlo dalla IV° zona?
E' difficile dirlo, ora, che i capi partigiani sono
quasi tutti morti... certo che Mario accettava sempre meno l'ideologia
comunista, e che la sua situazione si aggravava, avendo ora, al fianco,
un commissario politico...
Il 19 marzo 1945 mio fratello va al distaccamento
di Borzano-Montericco e vi passa le giornata insieme a Piero Cipriani,
Anselmo Menozzi, ed altri; il mattino successivo, con una squadra, va a
Tabiano per prendere contatti con Armando Pervilli, Marte; verso sera è
a Regnano, ospite di una famiglia amica. La mattina del 21 avviene uno
scontro con i tedeschi a Tabiano, vicino a Viano. Mio fratello decide di
scendere a Viano, poi, nel pomeriggio, di andare a Baiso, per raggiungere
il paese devono attraversare un torrente. A questo punto egli viene fermato
da alcuni uomini; si ferma a parlare con loro e fa cenno all'amico Montecchi
di proseguire, che poi li raggiungerà. Nessuno lo rivedrà
mai più, vivo.
Sarà da me ritrovato il 2 agosto 1945, a
Vera, località a due passi dal Comando di Brigata. Chi ha portato
lì il cadavere? Chi l'ha ucciso? E dove l'hanno ammazzato?
Io so che i miei genitori, mio padre in particolare,
ha girato per mesi a cercarlo, battendo campi, fossi, case... chiedendo
a tutti, con la disperazione nel cuore. Mia madre sembrava impazzire dal
dolore... nella nostra famiglia è scesa, terribile, l'ombra della
morte.
Alla fine di marzo, Dossetti aveva mandato a Viano
alcuni partigiani perché facessero una ricerca su Azor: interpellati
civili e combattenti, avevano ricevuto in risposta la più imbarazzata
omertà... (2)
Mio padre ed io si andava in tutti i comandi partigiani,
dopo il 25 aprile... ma uno dava la colpa all'altro... nessuno sapeva niente
di preciso... qualcuno, addirittura, ci aveva detto che Mario era passato
in Toscana, con gli Americani... Tante bugie per allontanarci dalla verità...
Finalmente, il 2 agosto, un mio vicino di casa,
certo Ferri, mi ha detto che a Vera un suo amico, Canova, aveva trovato
nel suo podere un cadavere. Siamo partiti, due fratelli Ferri ed io, e
ci siamo recati dal Canova. Questi raccontava che alcuni giorni prima era
passato di lì il vecchio Simonazzi, in cerca del figlio, ma che
lui non si era attentato a dirgli che suo figlio era proprio lì;
sepolto in un fosso... Mentre raccontava io mi sentivo venir male... Lui
non sapeva che io ero suo fratello... ha poi preso una vanga ed ha cominciato
a scavare; sapeva molto bene come fare, quasi che avesse visto bene
come era stato messo... Il corpo di mio fratello era già in
stato di decomposizione, ma non abbastanza per non essere riconosciuto.
In due siamo rimasti a guardia, mentre gli altri due sono andati a chiamare
i Carabinieri di Vezzano sul Crostolo. Quindi, messo su di un carretto,
abbiamo portato mio fratello al cimitero di Albinea. Mi ricordo un particolare:
dopo il funerale, un suo amico, (* *) di Vezzano, è venuto a casa
con noi. La mamma, come altre volte, l'ha invitato a restare per la notte:
un poco a malincuore, egli ha accettato. La mamma, volutamente, l'ha messo
nel letto del figlio morto ammazzato, nel letto del suo amico Mario...
ma intorno alle tre, l’amico, preso da smanie, dava in clamori, e gridava
che non poteva restare lì... che doveva assolutamente andarsene...
Non capisco il perché. Lei come lo spiega?
Mio fratello è morto perché era un
cattolico fedele ai suoi princìpi ed ai suoi amici. Lui era fedele,
nell'amicizia. Mario è stato un martire inutile. Perché l'hanno
ucciso? Perché, soprattutto, quel silenzio, che dura da 50 anni,
quell'omertà... perché chi ha visto, chi sa... non parla?
Tra partigiani... tra persone della stessa città... che avevano
lo stesso fine, quello di liberare la nostra terra dal tedesco invasore...
Mario, Azor, di sicuro ha perdonato; noi, che ancora
lo piangiamo, facciamo molta fatica. Due dei suoi assassini sono già
morti: l'altro è in vita. Nessuno vuole fare il suo nome... noi
non cerchiamo vendetta, perché l'odio non alberga nei nostri cuori...
ci chiediamo soltanto, io mi chiedo solo: perché? E se è
stata una "giustizia", perché non se ne sono mai assunti
la paternità?
Perché di Caini, durante quel periodo,
ce ne sono stati tanti. Peccato che la storia reggiana li abbia innalzati
al rango di eroi!»
(1) Nella relazione del commissario di distaccamento Guido Grimandi,
si legge: «Il 3° distaccamento SAP, ad Albinea, viene organizzato
da Azor e da Bartoli Armando, Ragno,...». Istoreco, cart.76°
Brigata.
(2) SERENO FOLLONI, Fede e Resistenza, Pozzi Editore, Reggio Emilia,
1995.
Geom. Giuseppe Artioli, classe 1934
«Sono nato a Rubiera nel 1934, ma la mia famiglia
si è trasferita a Scandiano nel 1940, dove ha gestito un negozio
di generi alimentari all'ingrosso. Nel 1942, improvvisamente, è
morto mio padre, e la mamma è rimasta sola in negozio, mantenendo
l'attività con l'aiuto di mia sorella Virginia, classe 1923. Era
lei, che, seppure giovanissima, prendeva cavallo e calesse ed andava a
fare consegne di prodotti alimentari, anche lontano; ricordo che nell'inverno
1944 era andata a Monte Babbio, per consegnare merce: arrivata a destinazione,
è però stata assalita da alcuni partigiani che l'hanno depredata
e spogliata. Non è un modo di dire: le hanno preso cavallo e carretto,
e poi, non contenti, le hanno fatto togliere le scarpe ed i vestiti...
Quello è stato un fatto che l'ha sconvolta, ed aveva terrorizzato
anche la mamma, che pure era abituata alle frequenti "visite"
dei partigiani, che, armati, in piena notte, ci svegliavano per prelevare
merce dal negozio, alimentari, ma soprattutto liquori. Due dei più
solerti frequentatori notturni del nostro negozio erano i fratelli di (*
*), che, pur conoscendo la nostra difficile situazione di una vedova con
tre figli da mantenere, non si facevano scrupolo di razziare il negozio,
lasciandoci in cambio dei buoni che poi, a fine guerra, non sono serviti
a niente.
Questi erano i tempi... d'altra parte il papà,
Tommaso, pur non essendo un militare, aveva la tessera del partito fascista,
e, credo, appoggiasse l'idea; questo, sicuramente, senza mai recare danno
a nessuno; anzi, quanti crediti, quanti libriccini neri aveva nel cassetto,
sui quali annotava i crediti... lunghe liste che talvolta non sono state
onorate! Ma spesso i miei genitori tolleravano e perdonavano, soprattutto
quando si trattava di famiglie davvero povere. Peggiore è stata
la storia dello zio Archimede (fratello del papà), il quale gestiva
una cantina enologica a Rubiera. Largo di vedute, aperto, generoso, prodigo
con tutti, lo zio era stato nominato, durante la guerra, podestà
di quel piccolo comune. A causa della sua magnanimità, era stato
spesso ripreso dal Prefetto di Reggio, il quale gli rimproverava di spendere
troppo denaro per l'ECA (l'Ente Comunale Assistenza) al fine di aiutare
i bisognosi.... Ricordo che aveva fatto di tutto per attuare la costruzione
del nuovo cimitero di Rubiera, dotandolo di un appartamento per il necroforo;
questo fatto non è marginale, le spiego il perché. La famiglia
del necroforo, invece di essere contenta di occupare - gratuitamente -
un'abitazione comunale, ambiva ad un appartamento nelle case popolari;
lo zio, con pazienza, li ha accontentati, scontrandosi anche con l'intero
consiglio comunale che insisteva per costringere il necroforo ad abitare
la casa assegnata. So, da amici e conoscenti, che lo zio ha solo fatto
del bene, sempre e disinteressatamente, senza guardare al colore politico...
Ha fatto il Sindaco, con coscienza ed onestà. La guerra è
finita, ed il 25 aprile non ha toccato la mia famiglia. Ma alcune settimane
dopo, verso la metà di maggio, egli ha subito un affronto terribile:
alcuni facinorosi sono andati a prenderlo a casa e, con botte, sputi e
calci, l'hanno costretto a mettersi davanti ad un carro colmo di sacchi
di... ha capito,... di porcheria... e a trascinarlo, come se fosse stato
un cavallo... o un asino... Fra gli sgherri emergeva il necroforo…
Ad accompagnare questa penosa processione, poi una
canzone che lo zio ricordava come un supplizio:
Noi siamo la canaglia pezzente
noi siamo chi suda e lavora
smettiamo di soffrire ch'è l'ora
smettiamo di soffrire ch'è l'ora
ai Soviet noi diamo la mano
l'Italia farem comunista
a morte il regime fascista
insorgiamo ch'è giunta la fin!
Insorgiamo ch'è giunta la fin!
Viva i Soviet! Viva Lenin!
Le parole di questa canzone, come di altre del tempo,
esprimevano quello che provava la maggior parte dei vincitori: e cioè
che non bastava aver cacciato dall’Italia i tedeschi (giustamente) e di
aver vinto la guerra civile, ma che bisognava anche attaccare la borghesia
e quelli che la rappresentavano.
Credo che la lotta di Liberazione sia stata anche
di classe, parte di un processo rivoluzionario che avrebbe dovuto portare
alla dittatura del proletariato. Anche Scandiano ha visto scorrere molto
sangue a guerra finita. Perché era finita solo sulla carta:
di fatto non sono state consegnate tutte le armi, che invece hanno continuato
a sparare per anni.»
A questo proposito, basta leggere alcune pagine
di un libro, scritto da O. B. Saltini e R. Delmonte (1), in cui si
legge: "...dopo il 25 aprile le forze partigiane vennero dislocate
nella caserma dell'Artiglieria e venne l'ordine di consegnare le armi agli
alleati. La reazione dei partigiani fu quasi del tutto negativa: sentivano
che se avevano sconfitto il fascismo ed i tedeschi era solamente perché
avevano lottato armati; sentivano che se si voleva eliminare la matrice
del fascismo e della "reazione", si doveva continuare la lotta
con le armi, fino alla eliminazione della borghesia e la instaurazione
di un governo popolare... disarmati, non avrebbero contato niente... I
partigiani non accettavano le direttive dei partiti politici e proseguivano
a loro modo la lotta contro il fascismo e la borghesia... essi portavano
avanti l'epurazione dei fascisti... epurazione che non andava avanti per
l'opera di sabotaggio dei partiti borghesi come la Democrazia Cristiana,
che voleva salvare i fascisti, giungendo fino a far sparire i documenti
che provavano le loro azioni criminali... I partigiani aspettavano solo
il momento di riprendere in mano le armi sotto la guida di un partito comunista
che li avrebbe diretti alla conquista del potere... come nella Russia di
Stalin;...". (2)
L'obiettivo dei comunisti era dunque l'instaurazione
della dittatura del proletariato, come si evince dalle parole dei due autori
di provata fede. Ed ogni mezzo era lecito. Le armi continuavano a sparare
e a uccidere. La guerra era finita, ma gli odî no; quelli sarebbero
continuati ancora per molti mesi, oserei dire per anni. La pace è
una conquista dura, difficile, ardua: ma necessaria; e per ottenerla, bisogna
prima compiere un gesto che sarebbe davvero sintomo di civiltà:
quello di riconsegnare ai familiari le salme, le ossa, ormai, le poche
ossa di coloro che sono stati uccisi e nascosti da "fraterne mani
assassine". Senza questo atto - dovuto peraltro - le coscienze dei
figli e quelle degli uomini onesti restano inquiete.
«Lo zio Archimede, sofferente di cuore, è
rimasto molto segnato da quella umiliante esperienza. Di più, la
vita, a Scandiano, era diventata impossibile; l’aria si era fatta pesante,
e così, dopo aver venduto la cantina e l’intera proprietà,
si è trasferito a Bologna, dove, per mesi, è stato ricoverato
in ospedale. Fino agli ultimi giorni ripeteva ai parenti che l’andavano
a trovare: … Perché… perché mi hanno trattato così…
che li ho aiutati tutti…!?
Me lo domando anch’io.»
(1) O. B. SALTINI - R. DELMONTE, La tana della tigre, ed. Delmonte,
Montecavolo (RE), 1983.
(2) I comunisti avrebbero voluto, sì, eliminare tedeschi e fascisti,
ma anche la Chiesa cattolica, che un giorno sarebbe stata la loro più
accanita avversaria per l’instaurazione della dittatura rossa. E per questo
hanno fatto nel reggiano una vera strage di sacerdoti inermi: don Luigi
Ilariucci, don Luigi Manfredi, don Giuseppe Jemmi, don Dante Mattioli,
don Carlo Terenziani, don Aldemiro Corsi, il seminarista Rolando Rivi,
e, nel 1946, don Umberto Pessina.
LE RAGIONI DEI VINTI di Rossana Maseroli Bertolotti e Liano Fanti.
Il volume di 201 pagine può essere richiesto al CENTRO
STUDI ITALIA, al costo di lire 30.000.
Renzo Ceci, classe 1931
«Mio padre, Guglielmo, è nato a Poviglio
nel 1893. La nostra famiglia era, già agli inizi del secolo, considerata
benestante, dal momento che gestiva un caseificio di sua proprietà
con diversi operai quali lavoranti, abitava in una bella villa liberty,
e possedeva tre piccole stalle, tre cavalli, due poderi e macchine per
aratura e trebbiatura conto terzi: ecco, ho fatto l'elenco delle proprietà,
perché mi è sempre sembrato questo il motivo della successiva
scomparsa di mio padre. Era un uomo tranquillo, gioviale, sempre gentile
e comprensivo con gli operai, che trattava come amici; di questa sua amabilità
possono testimoniare molti, a Poviglio: vorrei dire tutti quelli che l'hanno
conosciuto e frequentato. La mamma è morta, giovanissima, nel 1934,
lasciando due bimbi in tenera età: me, classe 1931, e mio fratello,
classe 1932.
Per anni il papà è rimasto solo con
due piccoli, e si può immaginare la nostra solitudine dovuta a quella
tragedia. Senza mamma, sì, ma con un padre che ha cercato di fare
per due. Io ricordo quando, la domenica mattina, ci faceva salire sulla
sua Lancia Augusta, acquistata nel 1937, e ci portava con lui al mercato
del paese; eravamo tanto orgogliosi di lui! Ci comperava sempre qualcosa,
e, con la sua affettuosa presenza, cercava di farci sentire meno la mancanza
della mamma.
Quando è scoppiata la guerra, tante persone
cercavano di evitare di andare al fronte, naturalmente: mio padre, d'accordo
col dentista, (anche facendo levare molti denti a quei giovani) è
riuscito ad evitare la Russia a diversi, che in questo modo gli devono
la vita. Ricordo alcuni nomi dei suoi salariati agricoli che possono dirsi
vivi grazie a lui: Aurelio Bonacini, Dallaglio, Bonacini di Sorbolo, per
esempio... Il suo amico più caro era il fabbro di Poviglio, oltre
ai suoi dipendenti, naturalmente, che trattava come familiari. La guerra
ha portato scompiglio anche nella nostra casa: la tessera, la mancanza
di generi alimentari... però mio padre capiva che per sopravvivere
era necessario "ungere" da entrambe le parti; tramite un mediatore,
Ermes Casoni, mandava soldi e bestiame a Montecchio, da dove partivano
per la montagna, per essere quindi distribuiti ai partigiani. Anche le
visite, abbastanza frequenti, dei tedeschi, lo svenavano: partivano infatti,
insieme a loro ed alla bionda interprete reggiana che li accompagnava:
forme di grana, salami, prosciutti, latte... insomma, tutto quello che
gli faceva gola veniva requisito! Si era tartassati sia dai fascisti che
dai comunisti... solo che i comunisti, pochi mesi dopo, avrebbero ucciso
mio padre e nascosto il suo cadavere!
Il 25 aprile, a casa mia, è passato tranquillo:
il lavoro al casello, come sempre, perché le mucche vanno munte
anche se è il giorno della Liberazione. Alcuni giorni dopo, verso
la metà di maggio, il Comando partigiano di Poviglio, domiciliato
nell'attuale Caserma dei Carabinieri, manda a dire a mio padre di consegnare
allo stesso cinque forme di "grana" ed i "famosi" finimenti
da cavallo...
Famosi perché motivo di contendere; mio padre
aveva comperato finimenti molto particolari, nel 1938, da un ebreo di Viadana,
insieme a tre cavalli che faceva uscire in fila indiana, una strana triglia,
che si notava per la sua particolarità: probabilmente questi finimenti
assai particolari piacevano a qualcuno di Poviglio, che se ne voleva in
qualche modo impossessare. E così, alcuni compagni del Comitato,
a noi ben noti, requisiscono a mio padre cinque forme di grana sostenendo
che prima della Liberazione aveva fatto mercato nero, ed i finimenti con
la scusa che in paese si diceva che egli li avesse presi ad una colonna
di tedeschi di passaggio...
Domenica mattina 20 maggio, dunque, io sono salito
sul carro ed ho portato in Caserma la merce richiesta; il papà mi
seguiva in bicicletta. Lì arrivati, gli hanno fatto una specie di
processo: seduti intorno ad un tavolo lo hanno accusato, appunto, di vendere
sottobanco il formaggio, e di aver rubato i finimenti ai tedeschi...
Nonostante la povertà e l'infondatezza delle
accuse, mio padre spiegava che quando aveva comperato i finimenti c'erano
testimoni, e che il formaggio serviva da dare, pezzo per pezzo, ai lavoranti,
quando erano in momenti di particolare bisogno... oltre che, alcune forme,
servivano di deposito nel casello... Ma purtroppo, contro la forza brutale,
la ragione non vale... Dopo quasi un'ora di pacata discussione - mio padre
era un uomo calmo e tranquillo - i partigiani hanno detto: "...Andate
a casa, che entro domani sera sarà tutto sistemato...".
Ricordo chiaramente queste parole, che allora ci
avevano tranquillizzato. Lungo la via del ritorno eravamo infatti sereni,
e mio padre si faceva trascinare dai cavalli, evitando di pedalare. Sembrava
davvero tornata, dopo tanto tempo e tante pene, la pace.
La sera dopo, il 21 di maggio, verso le 11,20, hanno
bussato alla porta tre uomini con larghi cappelli di paglia ed il volto
un poco coperto. Hanno chiamato giù mio padre che ha risposto: "Mi
vesto e arrivo!"
Anche noi ragazzi siamo scesi in cortile: era una
notte di luna, limpida. I tre hanno parlottato un poco con papà,
finché egli mi ha detto: "Vai su in camera e prendi il portafogli,
il libretto degli assegni e la stilografica..."
Ho ubbidito, e poco dopo si sono avviati verso il
viottolo, dove aspettava un camioncino. Noi fratelli seguivamo il papà,
preoccupati, e ad un certo punto uno dei tre si è voltato di scatto
ed ha sparato con un mitra per terra. Dalla paura siamo scappati in casa.
Mio padre conosceva quei tre; me ne sono accorto
da come parlava con loro. Si fidava di loro, pensando che volessero dei
soldi... o che volessero sistemare la questione dei finimenti o del grana...
So che li ha seguiti senza opporre resistenza, mi sembrava in fiducia.
Non l'ho mai più visto. Sono rimasto col
mio fratello più piccolo di me, affidati ad un tutore di Parma.
Orfani e col marchio di "figli di un fascista". Mio padre aveva
avuto, come moltissimi, la tessera, ma non era mai stato un militare. Faceva
il burro e il formaggio, ed aveva la grandissima colpa di aver ereditato
due poderi. Poi aveva la colpa di girare per Poviglio con dei finimenti
particolari ai cavalli... finimenti che dopo la sua morte onoravano il
cavallo di un carrettiere di nostra conoscenza, certo (* * )!
Passando per la strada maestra di S. Sisto, l'autista
del camion della morte, passando davanti al bar di Fava, ha gridato: "Il
primo merlo è già in gabbia...", riferendosi a mio padre:
dopo di lui, nella stessa notte, altri uomini sono stati prelevati, tra
i quali l'ing. Carlo Garbarino, Carlo Cantoni, Vasco Dallaglio, e Lodovico
Pergetti.
Di nessuno si è più saputo niente.
Dove li hanno portati? Perché, nonostante
le reiterate suppliche, non ci dicono, anche con una lettera anonima, dove
sono le ossa dei nostri cari?
In paese correva voce che li avessero condotti a
Campagnola, dove già erano stati sepolti Riccardo Soncini ed altri
rinvenuti (nel famoso "Cavoun") nel marzo 1992. Noi familiari
abbiamo cercato di far aprire delle fosse anonimamente segnalate, ma già
subito dopo la guerra si ostacolavano queste ricerche.
Mio padre, Guglielmo Ceci, ha aiutato, con soldi
e bestiame, i partigiani che combattevano in montagna; non ha mai fatto
male a nessuno, non ha fatto uccidere né mandare in carcere alcuno;
ha aiutato, dato lavoro, e rispettato, per amor di pace, tutti: rossi e
neri. Perché allora una morte così, e poi anche l'occultamento
del suo cadavere? Uno dei tre assassini - io lo so - è ancora in
vita, pur abitando in altro Comune; non avrà mai uno scrupolo, un
senso di colpa per aver ucciso così ingiustamente? Chissà
che prima di morire non gli vengano in mente gli occhi pieni di dolore
e di terrore di quei due orfani e si decida a raccontare i suoi misfatti...
Io me lo auguro, per me, certo, ma anche per lui...»
Roberto Pergetti, classe 1929
«La mia famiglia abita da sempre a Poviglio,
nella frazione di S. Anna. Mio padre era cascinaio, piuttosto benestante,
dato che possedeva, e lavorava, alcune biolche di terra che circondavano
una solida casa. Fino al 1945 la mia famiglia non ha avuto problemi, fino
a quando, cioè, non è stato ucciso mio cugino Vivaldo Violi.
Egli gestiva il bar a Quattro Castella ed un giorno, il 21 gennaio, di
buon mattino, si era incamminato verso Reggio, per fare provviste di caffè.
Non è più tornato a casa. Sparito nel nulla. Poi, qualche
notizia, confusamente, cominciava a trapelare, finché, dopo alcuni
giorni, la zia ha saputo che il cadavere del figlio penzolava da una quercia
in località Canossa, proprio attorno al famoso castello. Era purtroppo
vero: il povero corpo nudo di Vivaldo pendeva, irrigidito dal gelo e da
uno spesso strato di neve, da un albero. Aveva trentatré anni;
sua unica colpa, credo, l’essere andato volontario in Spagna, nel 1937.
Ma anche a casa mia, a Poviglio, le cose si sono
ben presto messe male. Il 26 o 27 aprile 1945 alcuni uomini si sono presentati
alla porta ed hanno invitato mio padre Giuseppe a seguirli in caserma.
Dopo un breve interrogatorio l’hanno rilasciato, poiché nulla di
rilevante pendeva su di lui. Ma due giorni dopo sono tornati; l’hanno prelevato
con modi bruschi e costretto a salire su di un camion, dove già
si trovavano, pallidi e terrorizzati, i suoi fratelli Marino e Stefano
(detto Lodovico) ed altri 5-6 uomini. Per vie traverse sono stati condotti
a Castelnovo di Sotto dove sono stati ammucchiati – erano in 37 – in un’unica
stanza del comando partigiano.
Di lì ogni notte un camioncino rosso partiva,
dopo aver caricato alcuni prigionieri, per destinazione ignota. Si è
poi saputo che a volte si dirigeva verso la zona detta “Traghettino”, in
cui venivano eseguite le operazioni di “sepoltura”.
Per fortuna, mio padre e gli zii sono stati trasferiti
a Reggio, nel carcere di S. Tommaso. Dopo circa quindici giorni, mio padre
è stato condotto ai «Servi», mentre gli zii invece,
al campo di concentramento di Fossoli. La nostra famiglie era stata violentemente
smembrata. Ma le violenze più gravi dovevano, purtroppo, ancora
avvenire.
Una settimana più tardi, lo zio Marino, malato
di diabete e bisognoso di cure, è stato mandato a casa in stato
pietoso, preagonico; tanto è vero che due giorni dopo è spirato,
quasi senza riprendere conoscenza. A Fossoli avevano avuto la mano pesante.
Io allora, appena sedicenne, mi sono recato ai «Servi», per
chiedere al direttore un permesso di ventiquattr’ore per il papà,
perché potesse vedere un’ultima volta il fratello morto. Ricordo
che indossavo delle scarpe del nonno, molto larghe: le mie erano consumate,
e la mamma non poteva comperarne altre perché, dopo il 25 aprile,
la Cassa di Risparmio di Poviglio (direttore Savini, lo scriva pure) aveva
congelato i nostri risparmi. E per questo si era in miseria.
L’incontro con il direttore è stato penoso
ed umiliante, ma poi, viste le mie insistenze ed il mio pianto, ha firmato
il sospirato permesso. Ho caricato allora mio padre sulla canna della bicicletta
e via, col cuore in gola fino a Poviglio! Avrebbe dovuto rientrare al carcere
il giorno dopo, ma la mamma ed io abbiamo insistito perché si nascondesse
nei campi: non volevo perdere mio padre.
Per quattro mesi abbiamo resistito alle continue
sortite dei partigiani che lo cercavano e che volevano sapere da noi dove
fosse: per due volte ci hanno sfondato la porta, ed ogni “inchiesta” è
stata un supplizio. Ho un ricordo, preciso: durante il funerale dello
zio Marino, due donne hanno insultato il prete perché accompagnava
il feretro di un fascista. Non l’ho mai dimenticato.
Il 20 maggio è tornato da Fossoli anche l’altro
zio, Stefano; era magro, scavato, taciturno: in tre settimane aveva cambiato
fisionomia. Una cena in famiglia, triste, e poi a letto. Sperava in una
vita più tranquilla. Ma la sera dopo, il 21 maggio, intorno alle
ore 22, si sono presentati alcuni uomini, non riconoscibili, che l’hanno
costretto a salire su di un camion. La solita terribile, straziante scena.
Insieme a lui sono stati prelevati, quella notte: Carlo Cantoni, Guglielmo
Ceci, l’ing. Carlo Garbarino (che aveva commesso il reato di essere benestante)
e Vasco Dallaglio. Di loro non si è saputo più nulla, e scomparse
sono anche le loro salme.
La mamma dell’ultimo caricato, Dallaglio, mi ha
poi raccontato che sul camion gli uomini piangevano; sapevano già
cosa li aspettava. La povera donna è poi salita sul tetto, per
seguire con lo sguardo quel camion che le strappava un figlio dalla carne;
ha visto, dunque, che dopo essersi immesso sulla strada che porta a Boretto,
ha svoltato per la strada d’Este, quella che va verso Gualtieri. Meno di
mezz’ora dopo l’automezzo faceva ritorno, vuoto. Si può quindi pensare
che i nostri cari siano sepolti qui intorno, in zona.
Diversi, e terribili altri episodi di violenza hanno
visto i miei occhi di ragazzo: esperienze brutali che mi hanno fatto maturare
alla svelta. Bisognava crescere in fretta, ed altrettanto in fretta dimenticare,
per il quieto vivere; anzi, per salvare la pelle. La guerra civile è
una tragedia per l’odio che semina; odio e risentimento lenti a morire.
Ora ho settant’anni, e di acqua ne è passata molta, sotto i ponti;
eppure, a volte trovo ancora persone - magari al bar – che si rifiutano
di fare una partita a carte con me, che mi schivano. Forse perché
sono figlio e nipote di fascisti.
Ma, quando si presenta la persona giusta e l’occasione,
pongo da sempre la stessa domanda: se è stato così colpevole,
Stefano Pergetti, perché non viene giustificata la sua morte? Perché,
dopo cinquantacinque anni lo stesso ostinato silenzio? Perché nessuno
ci segnala il luogo della frettolosa sepoltura? Aspetto la risposta.»
Don Alberto Camellini, classe 1919
«Nel 1944 sono stato mandato nella Parrocchia
di S. Valentino di Castellarano in qualità di supplente del parroco
don Olinto Marzocchini, da lì fuggito per aver subito un grave affronto
dai partigiani, i quali gli avevano portato via tutto, compreso le scarpe
che indossava. Un posto pericoloso, come si vede, ma io ci sono andato
volentieri, con la speranza, supportata dalla giovane età, di poter
far qualcosa per la mia Patria, che ho sempre amato, e per la gente del
luogo, che viveva nel terrore e nelle difficoltà createsi in paese
dal diffondersi di una guerra che diventava ogni giorno di più,
civile. Il primo incontro "particolare", l'ho avuto pochi giorni
dopo il mio insediamento; lungo la strada di Rontano, a S. Valentino, passavano,
armati, due partigiani: mi sono fermato per parlare con loro, per capire
meglio il loro atteggiamento, e dalla conversazione è emerso quanto
segue: "...Vede, don Alberto, il nostro nemico non è più
il tedesco - ormai chiaramente perdente - né il fascista, ormai
alle corde... ma il ricco, il proprietario terriero, chi si è arricchito
rubando ai poveri...". Ho avuto chiara la percezione che si stava
combattendo una lotta di classe, una lotta davvero fratricida, dove a partigiani
armati si contrapponevano paesani che avevano la colpa di aver ereditato
qualche podere, o che avevano commesso il reato di studiare per diventare
medici, veterinari, preti...
L'8 settembre 1943 per me è stato un giorno
di sofferenza: vedere la dissoluzione dell'esercito, militari che rientravano
dai fronti laceri, con le scarpe rotte, demotivati, stanchi, smarriti...
solo preoccupati di nascondersi, di finirla con una guerra in cui ormai
non credevano e di cui, comunque, erano insofferenti. Ecco, questo non
credere più in niente mi feriva, perché io, pur nella mia
veste di sacerdote, avevo degli ideali: di giustizia, di amore patrio,
di onore...
Ricordo un episodio, per tutti: ai primi di ottobre
1943, mi trovavo, per caso, nel negozio del libraio Bizzocchi, nello stradone
del Vescovado, in Reggio Emilia. La città era occupata dai tedeschi,
che avevano addirittura puntato una mitragliatrice verso il Comune; nel
negozio stavano alcuni sacerdoti, tra cui don Orlandini, Carlo, famoso
partigiano fondatore delle "Fiamme Verdi". Accanto a lui una
valigetta di fibra marrone, appoggiata a terra. Don Orlandini mi ha chiesto
di accompagnarlo dall'ottico Mordini, per acquistare un paio di occhiali
scuri: io mi sono offerto di portare la valigia, piuttosto pesante, ed
insieme ci siamo recati nel suddetto negozio, dove alcuni militari tedeschi
stavano facendo acquisti; poi, pian pianino, conversando, ci siamo recati
verso la stazione delle corriere. Io chiedevo a lui cosa avrei potuto fare
per la nostra povera Italia; ad un tratto, con un rapido movimento, don
Orlandini si è sollevato la veste e mi ha mostrato i suoi calzoni
militari, quindi, sorridendo amabilmente, mi ha confidato che la valigia
da me faticosamente portata... era piena di bombe a mano...
Sono stato felice di rischiare, se quel rischio
è servito, anche in minima parte, alla causa della Resistenza. Ma
attenzione, quando parlo di Resistenza, non mi riferisco a quel tipo di
guerriglia che ha insanguinato per lunghi mesi la nostra provincia, caratterizzata
da fanatismo politico che troppo spesso debordava in rancori e sfociava
in massacri e vendette personali... Perché, diciamo la verità,
se non ci fossero state la V° e la VIII° Armata... noi cosa liberavamo...?
A S. Valentino, dunque, si respirava aria di paura;
di giorno i partigiani che venivano a mangiare, a prendere generi di prima
necessità, spesso a razziare; di sera le visite dei fascisti, e
di notte le incursioni tedesche...
Personalmente non avevo paura: aiutavo tutti, come
potevo, offrendo cibo e scarpe a chiunque ne avesse bisogno, oltre, naturalmente,
al sostegno morale e religioso.
Non distante dalla Chiesa abitava una brava famiglia
di contadini cristiani, i Rivi: il padre cantava nel coro parrocchiale
ed il figlio quattordicenne, Rolando, suonava l'armonium. Quel 10 aprile
1945 il ragazzo era a casa, perché il Seminario di Marola, in cui
studiava, era stato, tempo prima, occupato dai tedeschi; dopo aver assistito,
come ogni giorno, alla Messa, egli se ne era andato in un boschetto accanto
alla sua abitazione per studiare. Quando la madre, passato il mezzogiorno,
è andata a cercarlo, ha trovato, al posto del suo ragazzo, i libri
sparsi e, tra le pagine, un biglietto con scritto: "...Non cercatelo,
è venuto con noi un momento. I partigiani."
Colto da un tragico presentimento il padre chiedeva
a tutti del figlio: Rolando indossava la tonaca e, in quei tempi, si sa,
molti erano coloro che consideravano i preti "ragni neri da schiacciare"...
Nulla, silenzio.
Solo la sera del 13 aprile, due uomini, uno dei
quali era il partigiano (* *), provenienti da Ceredolo, venuti in canonica,
mi hanno riferito voci sull'arresto del Rivi, considerato dai partigiani
spia dei tedeschi, e del suo trasferimento a Farneta, sede di un tribunale
partigiano. Per questo, la mattina seguente, col padre di Rolando mi sono
recato in quel luogo, dove ho saputo dal comandante Narciso Rioli che il
ragazzo era stato preso alle Piane di Monchio ed ucciso. Siamo quindi corsi
alle Piane; (**), da me interrogato, ha cinicamente confessato: "In
seguito alla decisione presa di passare per le armi il giovane, ordinai
a due partigiani di preparare una fossa... e quindi lo portammo lì...
Egli capì che stava per essere ucciso ed allora mi si buttò
ai piedi supplicandomi di avere pietà di lui. Ma, senza nemmeno
pensarci, io gli sparai contro due colpi di pistola: il primo colpo alla
tempia lo freddò, ma per assicurarmi gli tirai un secondo colpo...
Subito me ne tornai al comando lasciando agli altri il compito di seppellirlo...". (1)
Quanto al comandante della formazione "Martelli",
(* *), su di lui pendeva un'accusa infamante: l'uccisione di una sua zia,
Stella Sabbatini, avvenuta il 5 agosto 1944, a colpi di mitra.
Lo stesso (* *) sostiene: "... E' opinione
che fosse una spia dei fascisti... almeno così credo... certo il
Rivi aveva tendenze ideologicamente opposte alle nostre, proprio in fatto
di movimento partigiano...".
Rolando Rivi è poi stato "sepolto"
sotto una spanna di terriccio e di foglie; io stesso, aiutato dal povero
padre, ho riesumato il cadavere, l'ho sommariamente lavato, e composto
in una povera cassa. Quindi, la mattina seguente, è stato sepolto
al Camposanto di Monchio, per essere poi traslato in quello di S. Valentino
appena finita la guerra. Dagli atti del processo risulta che del suo abito
talare i partigiani fecero una palla che si divertivano a calciare, quindi
essa fu appesa alla porta morta di una casa colonica dove sventolava oltraggiosamente.
Sebbene molto grave, non è stato questo l'unico
episodio doloroso a cui ho assistito durante i mesi vissuti in quel di
S. Valentino. Ricordo quando alcuni partigiani hanno catturato uno dei
loro, certo Cavurain, che aveva tentato l'arresto di don Terenziani; era,
costui, un comunista che ad un certo punto era passato con i tedeschi;
pentitosi poi di tale tradimento, intendeva ritornare sui suoi passi, per
rientrare nei ranghi. Alcuni "compagni" sono venuti a prenderlo,
in Canonica (aveva infatti pranzato con me) e l'hanno portato a Farneta,
dove, dopo un sommario processo, l'hanno ucciso vicino al locale cimitero...
A dire il vero Cavurain non si era macchiato solo di tradimento: aveva
già ucciso, nei boschi di Gavardo, il suo compagno Rossi, che aveva
partecipato con lui ad una rapina rifiutandosi poi di spartire il bottino...
Il 25 aprile è passato anche da S. Valentino,
in modo abbastanza indolore. Io vivevo in odore di sospetto dai comunisti
locali, in quanto conoscevo, per aver parlato con alcuni di loro, gli assassini
del giovane seminarista Rolando Rivi, oltre a molte altre cose. Aggiungo
poi che durante i primi comizi del dopoguerra, quando i capipopolo sostenevano
di rispettare la religione, il sottoscritto, presente alle loro adunate,
sollevava il ritratto del giovane seminarista e chiedeva: "...E questo
chi l'ha ucciso?". Questi interventi, naturalmente, erano poco graditi;
tanto poco, che la notte del 4 novembre 1945, verso l'una e trenta, ho
subìto un attentato. Alcuni uomini picchiavano rumorosamente alla
porta della Canonica chiedendomi, con arroganza, di aprire; uno parlava
per tutti, (* *). Dalla finestra semichiusa mi sono negato, ed allora,
precisa, una scarica di mitra mi è passata a pochi centimetri dal
volto; i bossoli si sono conficcati nel muro. Era chiara l'intenzione di
uccidere di questi "bravi". Il (* *), in Corte d'Appello a Bologna,
durante il processo, fu definito dal Giudice "rottame dell'umanità",
in quanto aveva al suo attivo diversi altri reati, rapine, razzìe.
Certo parte della manovalanza partigiana era raccolta tra i relitti della
società, tra individui disposti a tutto per due soldi, che nulla
avevano a che fare con coloro che credevano negli ideali della Resistenza,
che per essa hanno lottato, coraggiosamente combattuto e dato la vita.»
(1) Testimonianza resa al processo di primo grado di Lucca il 9 gennaio
1951. «Il Mattino», 10 gennaio 1951.
Enzo Tondelli, classe 1910
«Dai tempi lontani sono stato il macellaio
di Bagnolo: il mio negozio, come muri, apparteneva alla Chiesa, che lo
aveva ceduto in affitto alla mia famiglia. Una famiglia tranquilla, che
badava a lavorare, perché doveva sfamare molte bocche. Una famiglia
cattolica, che rispettava tutti, e che da tutti era rispettata. Poi è
scoppiata quella maledetta guerra; io sono andato in Libia, a Bengasi,
come carrista, mentre i miei due fratelli hanno creduto bene di arruolarsi
nella M.V.S.N.. Nel 1943 ero a casa, in licenza agricola; deve sapere che
avevo un "Landini" che era ottimo per arare, e così io
mi recavo ovunque ci fosse bisogno di lui e di... me! Siccome commerciavo
anche in cavalli, la carne non mancava mai: ma, e chiamo i vecchi a testimonio,
non abbiamo mai negato un pezzetto di bollito a nessuno, e quando i più
indigenti non potevano pagare, le loro liste, sul librettino nero, si allungavano
molto... ma noi non si sollecitava, aspettando tempi migliori e sperando
che, chissà... un domani, finita la guerra, potessero pagare! Ma
nonostante la nostra totale disponibilità, abbiamo dovuto subire
alcuni affronti: per esempio, un brutto giorno si è presentato un
contadino di Gavassa, (* *), dicendo che doveva sequestrarmi quattro vacche.
La mia stalla era a S. Michele, ed era tutto il capitale della famiglia,
composta di sette fratelli, più naturalmente, i nostri genitori.
Dunque quella pretesa, anche se lo scopo - a suo dire - era quello di distribuire
la carne al popolo, ci avrebbe messo sul lastrico.
Ma le vacche sono state portate via, e, davanti
alla mia disperazione, ha minacciato di uccidermi anche la cavalla. Un'altra
volta sono venuti in macelleria, a Bagnolo, e mi hanno vuotato il frigo;
non contenti, sono passati anche da casa e l'hanno razziata: panni da letto,
lenzuola, la radio, coperte, alimentari... c'erano solo le donne, sa...
e loro non hanno opposto resistenza. E poi, che resistenza si poteva
fare davanti a tanta prepotenza? Erano armati... e non nascondevano neanche
il volto, perché la mamma li ha riconosciuti: erano proprio di Bagnolo.
E siamo arrivati, purtroppo, a quel 25 aprile 1945,
giorno della cosiddetta "Liberazione": mio fratello Alberto,
di 44 anni, sposato e padre, è stato ucciso, insieme ad altri, sul
ponte del Crostolo, a Reggio, dalle parti di S. Stefano; mia sorella Clementina
è corsa per riconoscere il cadavere, e quando è tornata a
casa, piangeva forte e diceva: "Li hanno ammazzati come cani...".
Alberto era un bell'uomo: bello ed elegante; direi che si distingueva tra
gli altri giovani, di solito molto smessi. Quello di tenersi su era
una sua idea...e credo che per questo, ed anche perché si aveva
la macelleria, si sia attirato molte antipatie.
Era fascista, ma che io sappia - e vorrei saperlo
se qualcuno può affermare con sicurezza il contrario - non è
mai andato a sparare contro nessuno e neanche faceva parte delle Brigate
Nere... andava alla Milizia quando c'erano delle feste, quando si doveva
andare in parata, ma era quasi sempre in bottega...
Pochi giorni dopo averlo sepolto, è toccata
a me: una mattina (7-8 maggio) si sono presentati alcuni uomini e mi hanno
detto di seguirli alla palestra comunale; lì erano assembrate una
trentina di persone, tra cui l'ostetrica comunale Benedetta Barchi. Io
non capivo il perché di quella restrizione, ma loro dicevano di
stare calmi, perché chi non aveva commesso reati sarebbe stato rilasciato.
Io tranquillo non ero, perché in quei giorni a Bagnolo sparivano
le persone e non si sapeva bene dove... anzi, lo sapevamo... Per fortuna
mia, un contadino partigiano, che mi conosceva bene perché mi vendeva
le bestie, ha testimoniato per me, e così alla sera, sono potuto
tornare a casa mia. Ma lo spavento è venuto dopo, quando ho saputo
che tutti gli altri che erano con me sono stati seviziati, torturati e
quindi uccisi. Pensi che l'ostetrica è stata sepolta viva con un
braccio fuori dalla terra, ed un giovane partigiano, vedendo quel braccio
che ancora si muoveva, è svenuto...
Non sono favole, sa, perché costui c'è
ancora... e se volesse parlare, credo che avrebbe molte cose da dire sulla
crudeltà, a volte del tutto ingiustificata, della cosiddetta polizia
partigiana! A Bagnolo sono state uccise una ventina di persone, ma la maggior
parte erano civili che avevano la sola colpa di essere stati fascisti.
(1) Questo abbiamo passato, ma non basta. Finita la guerra,
quando tutto avrebbe dovuto tornare nella normalità, per la mia
famiglia è cominciato un periodo molto difficile: i comunisti
proibivano alla gente di venire a fare spesa da noi... Le mie zie,
molto credenti, quando dovevano andare alla Messa, venivano oltraggiate
e disturbate dai giovinastri che, seduti davanti al bar della Casa del
popolo vicino alla Chiesa, lanciavano loro pesanti offese. Mia zia Santina,
poiché era impiegata in Municipio, alla Annona, è stata costretta
a girare per il paese e mentre camminava la insultavano; ad altre hanno
rasato i capelli. Ricordo che andavamo a dormire da mia suocera perché
a Bagnolo non si era sicuri... e guardi che erano passati mesi da quel
25 aprile! Anzi, anche anni dopo - io ricordo il periodo preelettorale
del 1948 - i cattolici venivano sbertucciati ed anche offesi; si tribolava,
quando si doveva andare dietro alla Madonna Pellegrina! Se potevano,
cercavano di impedire agli altri - ai non comunisti - di esercitare i loro
giusti diritti. L'hanno fatto per molti anni.
Perché questa era la loro democrazia.
Ci sono state persone brave e delinquenti da ogni parte: la guerra civile
porta così, ma la crudeltà esercitata da alcune bande di
partigiani, nella "bassa", si può paragonare a quella
che hanno usato i nazisti: parola di un vecchio, quasi novantenne, che
la vita, e le sue brutture, le conosce. Per aver visto, per aver vissuto
anche in prima persona, posso proprio dire che la democrazia che volevano
instaurare i comunisti del 1945 era quella che ci hanno mostrato - e ce
ne hanno mostrato solo un po' -; ringrazio il Cielo che ci ha mandato un
De Gasperi, perché sennò, adesso, altro che Albania...»
(1) A dire il vero, a Bagnolo il contributo di sangue da parte anticomunista
è di 25 persone: Benedetta Barchi, ostetrica; Luigi Bigliardi, bersagliere
in libera uscita; Giovanni e Guido Capiluppi (dispersi, di cui ho trattato
particolarmente); Ernesto Carmignani; Antonio Corazza, possidente, ucciso
il 25 aprile nel suo letto, dove si trovava, infermo; Antonio Ferrari,
milite della G.N.R., ucciso, però, nel 1944 in occasione dell'assalto
al Presidio; Nettuno Gatti, impiegato comunale; Giovanni Gherardi;
Attilio Ghinolfi, ucciso insieme ad Alberto Tedeschi; Ovidio Liviano, ucciso
nel 1944, verso mezzogiorno, mentre rincasa: "...Raggiunto e
freddato alle spalle -coraggiosamente - da due ciclisti"; Mario Matroni;
Giovanni Motta già Maggiore dei Bersaglieri e Comandante della Caserma
Zucchi come Maggiore della G.N.R.: disperso; Davide Onfiani, Capitano dell'Esercito
e Segretario Comunale di Bagnolo; Aldino Cleante Paterlini, fattore dell'azienda
agricola Corazza di Bagnolo; Guido Persia, Bersagliere della Divisione
Italia; Armando Ronzoni, di anni 47, ucciso il 24 aprile 45; Rossi... di
S. Tommaso di Bagnolo, ucciso il 16 maggio 45 insieme a Giuseppe
Pavarini e ad uno dei fratelli Marchetti di Novellara; Luigi Saccani, prelevato
il 6 maggio 1945, disperso; Roberto Saccani; Renzo Sacchi, di anni 29,
agricoltore; Giovanni Spaggiari, disperso; Oscar Torelli, disperso. Per
dispersi, naturalmente, si intende "cadaveri mai più ritrovati".
Luciana Gibertini. Classe 1926
«La mia famiglia è originaria di Ciano
d'Enza, ma dopo la fine della prima guerra si è trasferita a Reggio.
Qui ho imparato a lavorare da sarta alla famosa scuola "Fontanesi",
scuola che insegnava alle apprendiste anche una certa educazione, un tratto
ed una gentilezza che avrebbero dovuto far parte del nostro futuro comportamento;
educazione che mi ha segnata, dato che, un poco per natura, ed un poco
per il motivo sopraddetto, ho poi messo il rispetto verso gli altri e l'educazione
davanti a tutto. Anche durante la guerra lavoravo: casa e lavoro, ma poi,
finalmente, l'amore, nella persona di Ferdinando Magnani, di professione
meccanico, che nel 1944 ho sposato. Mio marito credeva, come tanti, nella
dottrina fascista, e dopo l'8 settembre 1943 si era iscritto nella Guardia
Nazionale Repubblicana; a volte faceva servizio nel presidio di Reggiolo,
proprio come aggiustatore meccanico. Il 25 aprile 1945 si è presentato,
spontaneamente, al Comando partigiano situato presso l'attuale caserma
Zucchi, da dove è stato portato ai «Servi»; in questo
carcere ha passato sei mesi, fino al novembre, e, - lo devo ammettere -
trattato non malissimo; voglio dire che non è stato picchiato, diversamente
da molti altri. Ben diversa è stata, invece, la sorte di mio
fratello Luciano; classe 1929, appena compiuti 16 anni, cioè l'11
febbraio 1945, è stato chiamato a far parte del presidio di Montecchio;
so di preciso che nei due mesi in cui ha fatto il "militare",
proprio per l'età, non ha mai partecipato ad azioni di "disturbo":
era sempre nella casermetta ad aiutare in cucina, a rispondere al telefono...
insomma, un ragazzino "jolly"... come si direbbe oggi. Il
25 aprile il presidio è stato catturato da un gruppo di partigiani,
e Luciano è stato condotto, insieme agli altri, al Comando di Vedriano,
situato dietro le scuole. Mentre i più vecchi, dopo un processo
sommario, sono stati uccisi e seppelliti sulle colline intorno a Vedriano,
mio fratello ed un altro ragazzo di 17 anni, di S. Polo, sono stati trattenuti
nella scuola. Per cinque penosi giorni, finché, nella notte del
30 aprile, sono arrivati due partigiani in auto che li hanno prelevati,
portati nei boschi di Cernaieto ed uccisi con un colpo di pistola in bocca.
So che c'è stato vilipendio di cadavere, so che sui due poveri ragazzi
è stato urinato e defecato... so questo per precisa testimonianza
di don Canedoli, parroco di Vedriano, che aveva trasferito i dati a don
Pasi, parroco di San Pietro, da me disperatamente interpellato per sapere
la verità.
Uno zio, Oreste Gibertini, abitante a Ciano, saputo
della feroce uccisione del nipote, si è recato sul luogo indicatogli
ed ha cominciato a scavare; ma ha tribolato per poco, perché la
povera salma è riaffiorata subito, col volto completamente sfigurato.
Ha quindi provveduto a seppellirlo più in profondità, perché
non si potevano muovere i cadaveri. Solo pochi mesi più tardi, per
una precisa segnalazione nostra, l'autorità ha disseppellito i cadaveri
e li ha trasferiti al cimitero di Casina, dopo l’autopsia. Molti anni più
tardi, una mia cara amica, R.M., moglie di un partigiano, mi ha confidato
che mio fratello è stato ucciso da un garibaldino di nome (* *),
poi emigrato all'estero con il fraterno aiuto e la benedizione dei dirigenti
del Partito. Posso aggiungere che questo "eroe", nell'estate
1945, faceva il portinaio ai «Servi», facendo da tramite tra
i detenuti e noi parenti, che portavamo loro qualcosa da mangiare; bene,
questo figuro, dopo aver compiuto una rapina a mano armata, diventando
probabilmente un pesante fardello anche per i suoi, è stato mandato
in Belgio... In quel periodo si trovava in carcere anche mio padre,
Giuseppe Gibertini, accusato da un "minus habens" sempre ubriaco,
di appartenere alla R.S.I. e di averlo minacciato con un moschetto. La
montatura è poi venuta a galla al processo, quando il (* *) ha ammesso
che era stata la (* *), l'ostessa di un caffè, fervente comunista,
a convincerlo di dire così... al fine di punire quel fascista di
Gibertini...
Ma non basta: il 26 aprile 1945, alcuni partigiani
hanno arrestato anche i miei cognati, Carlo e Renzo Ruozi, abitanti
a Reggio in via Toschi; la moglie di Carlo era incinta, mentre Renzo era
papà di una bimba di cinque mesi. Li hanno prelevati, caricati
su di un camion dove già erano "sistemati" una trentina
di altri fascisti, ed hanno fatto il giro della città tra gli sberleffi,
gli insulti, gli sputacchiamenti e le urla della gente inferocita; alla
berlina, come degli animali da circo: la colpa? Quella di avere avuto la
tessera del P.R.F. Renzo è stato trasportato a Bagnolo ed ivi
ucciso il 27 Aprile; nello stesso giorno in cui Carlo veniva fucilato a
Gavassa.
La salma di Renzo è stata reperita un anno
dopo a San Tommaso della Fossa, mentre quella di Carlo non è mai
stata trovata.
Ecco, questa la penosa storia della mia famiglia.
Credo che non ci sia bisogno di commenti, perché la tragedia
di quella terribile guerra civile salta fuori da sé; voglio aggiungere
che la nonna ci ha dovuto prendere tutti con lei, in casa sua, perché
siamo rimasti alla fame ed in miseria; alcune delle mie clienti mi hanno
detto che "qualcuno" proibiva loro di venire a farsi vestire
da me... dalla moglie e sorella di fascisti... ma per fortuna qualcuna
ha disertato da quell'ordine... Mio marito, però, quando è
uscito dal carcere, non è più riuscito a trovare lavoro...
tutte le porte erano chiuse per lui... l'epurazione ha proprio causato
questo; che gli ex fascisti hanno perso il posto, mentre i partigiani si
sono accaparrati i lavori degli altri... semplice ricambio di posto...
e così migliaia di famiglie sono rimaste sul lastrico. Nel 1950,
così, ci siamo visti costretti ad emigrare; solo per alcuni anni,
ma abbastanza per provare "come sa di sale lo pane altrui...".»
CONCLUSIONI (da LE RAGIONI DEI
VINTI di Rossana Maseroli Bertolotti e Liano Fanti. Edito presso il Centro
Studi Italia)
Quando si indaga un accadimento storico, si deve
innanzitutto risalire a una causa o a un complesso di cause sufficienti
a spiegare il fatto, salvo poi svolgere un'operazione critica per evitare
che ciò che si presenta di necessità logica, cioè
una spiegazione, diventi a tal punto la spiegazione da sostituirsi al fatto
stesso, negando ogni possibilità di revisione.Occorre in ogni caso
essere molto diffidenti nei confronti di interpretazioni che siano, a livello
causale, manifestamente inadeguate.
Il fatto che ci si presenta può essere così
sommariamente descritto.
Durante la Resistenza, ma anche per numerosi mesi
successivi alla sconfitta tedesca e dell'alleato italiano inquadrato nella
Repubblica Sociale, un numero imprecisato ma ragguardevole di persone,
nel Nord Italia e in particolare a Reggio Emilia e nelle province limitrofe,
vengono assassinate in modo particolarmente efferato e i loro cadaveri
quasi sempre occultati. Nessuna delle vittime di cui si parla nelle testimonianze
raccolte in questo libro era elemento di rilevanza sostanziale della gerarchia
fascista o repubblicana; soprattutto, nessuna svolgeva un ruolo attivo
di opposizione nei confronti della Resistenza.
Di questi fatti, di cui non ci si occupa, salvo
sporadiche eccezioni, né a livello giudiziario né a livello
storiografico, praticamente per cinquant'anni, rimane una memoria viva
e dolente nei familiari delle vittime, ma anche una memoria diffusa in
tutta la popolazione: il fenomeno è stato infatti così massiccio
che nessuno dei contemporanei può dire di non essere stato testimone
diretto o indiretto della sparizione di un amico, di un vicino di casa,
di un compaesano.Tale memoria diffusa assume però intensità
e coloritura diverse a seconda del coraggio personale e del credo politico.Si
va dalla denuncia al silenzio - ora spaurito, ora rassegnato, ora imbarazzato
- all'aperta giustificazione dei fatti. Da parte comunista, non potendosi
evidentemente sostenere la tesi di operazioni militarmente rilevanti -
e comunque non dopo la Liberazione - si parla degli assassini come di «schegge
impazzite» del movimento partigiano, individui o gruppi che avrebbero
operato fuori del controllo dei comandi partigiani e per fini di vendetta
personale.
E’ difficile immaginare che ai dirigenti e ai quadri
comunisti, che avevano uno stretto controllo politico e operativo delle
bande partigiane, potessero sfuggire di mano delle uccisioni premeditate
e realizzate spesso con modalità articolate (prelevamento, trasporto,
uccisione, occultamento dei cadavere). La fedeltà al partito operante
in quegli anni è tra l'altro messa indirettamente in evidenza dall'incrollabile
obbedienza nel rispetto del silenzio su tali accadimenti che, successivamente,
il partito comunista e le associazioni resistenziali ad esso legate sono
riusciti a ottenere.
Inoltre nessuna delle vittime di cui qui si parla
aveva avuto ruoli particolarmente vessatori nei confronti di chicchessia,
o si era macchiata di delitti: anche la spiegazione delle vendette personali
viene così depotenziata, a meno che non si ipotizzi un «moltiplicatore»,
più o meno consapevole, che negli assassini rendesse adeguata l'assurda
brutalità della vendetta agli eventuali torti subiti. Occorre dunque
cercare una spiegazione diversa, che, come quasi sempre accade in storia,
deve essere multicausale; ma le differenti motivazioni finiscono per trovare
un denominatore comune in un particolare humus ideologico che giustificava,
sia a livello di suggestione, che a livello di piena consapevolezza politica
e di strategia rivoluzionaria, gli accadimenti.
La guerra di Liberazione fu infatti interpretata
dai comunisti non solo italiani come la fase iniziale di una rivoluzione:
i comunisti italiani, in più, potevano rafforzare propagandisticamente
tale interpretazione sulla base della lettura del regime fascista come
braccio operativo della borghesia e di tutte le forze reazionarie del paese.Allora,
se al clima già avvelenato di una guerra civile si sommano le peculiarità
della prospettiva comunista, il quadro diventa non solo più chiaro,
ma straordinariamente coerente con tutto quanto il comunismo ha prodotto
nella storia, e che solo ora, con il crollo del sistema imperiale comunista,
si sta valutando nelle sue intere proporzioni.
La violenza rivoluzionaria e il terrorismo come
indispensabili strumenti della rivoluzione sono riaffermati da tutti i
padri ideologici del comunismo.
Le vittime, per l'appartenenza economica, professionale,
religiosa, erano da considerare nemici di classe: quindi, anche se non
oppositori attuali, nemici potenziali nella prospettiva rivoluzionaria
dell'instaurazione di un regime social-comunista, e perciò «meritevoli»
di essere eliminati.
La loro eliminazione poteva avere oltretutto funzione
pedagogica nei confronti di tutta la popolazione.
Perché non considerare poi, come si è
assistito in altri contesti e in altri anni, tali gesti come richiesti
od offerti alla stregua di prove tangibili di affidabilità rivoluzionaria:
la dimostrazione - tanto più efficace quanto più efferata
- della disponibilità totale nei confronti del partito? O ancora
come un pactum sceleris tra mandanti, esecutori e gregari da allora e per
sempre stretti da inscindibili vincoli di complicità? O, come tante
volte è accaduto nella storia delle rivoluzioni, il tentativo di
frapporre un mare di sangue tra il nuovo e il vecchio. affinché
nell'animo degli uomini - dei vincitori come dei vinti nulla potesse tornare
come prima?
L'efferatezza dei delitti di allora; l'assenza successiva
di qualunque forma di dissociazione o di pentimento - né politico,
né umano - da parte dei responsabili, qualunque fosse il loro ruolo,
diretto o indiretto, negli ammazzamenti; in qualche caso l'ostentato rammarico
per non aver potuto portare a compimento l'opera di «pulizia»
allora intrapresa, testimoniano abbondantemente, se ancora ve ne fosse
bisogno, del disastro antropologico provocato dal comunismo.
Il tentativo di salvare, mediante la categoria delle
schegge impazzite, la globalità del mito resistenziale dell'insurrezione
di popolo, che ha fondato non solo la partecipazione a pieno titolo del
partito comunista nella riorganizzazione politica dell’Italia repubblicana,
ma la sua egemonia, ci ricorda le parole di Francois Furet a proposito
dell'atteggiamento degli intellettuali di sinistra nei confronti della
Rivoluzione francese e della Rivoluzione bolscevica: «per un lungo
periodo ancora ben lontano dall'essersi concluso, la nozione di deviazione
rispetto a un'origine incontaminata ha consentito di salvare il valore
supremo dell'idea di Rivoluzione» ma «(..) oggi il Gulag ci
porta a ripensare al Terrore, in virtù dell'identità del
progetto (..) L'immenso privilegio dell'idea di rivoluzione, il suo essere
cioè al di sopra di qualsiasi critica interna, sta dunque perdendo
il suo valore di dogma». (1)
(1) FRANCOIS FURET. Critica della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari,
1987, pp. 16-17.
LE RAGIONI DEI VINTI di Rossana Maseroli Bertolotti e Liano Fanti.
Il volume di 201 pagine può essere richiesto al CENTRO
STUDI ITALIA, al costo di lire 30.000.
LE TESTIMONIANZE TRATTE DAL LIBRO E RIPORTATE NEL NOSTRO ARCHIVIO SONO
STATE NECESSARIAMENTE SUDDIVISE IN DUE PARTI.
IN QUESTA PAGINA TROVATE LA
SECONDA PARTE
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