LA RESISTENZA: MITO UNIFICANTE PER GLI ITALIANI?                                     


Tutte le TESTIMONIANZE riportate sono tratte dal volume LE RAGIONI DEI VINTI di Rossana Maseroli Bertolotti e Liano Fanti. Il volume di 201 pagine può essere richiesto al CENTRO STUDI ITALIA, al costo di lire 30.000.

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da LE RAGIONI DEI VINTI
 
 
TESTIMONIANZE
LEGENDA:
    Alcuni testimoni hanno fatto nome e cognome dei responsabili dei fatti oggetto di questo studio. I nominativi sono stati sostituiti dal simbolo (* * ).

TESTIMONIANZE di:

Prof.ssa Maddalena Bindoni, classe 1907
 
 
    «Sono la vedova di Andrea Benatti, classe 1910, tenore di chiara fama. Mio marito era un eccezionale artista lirico, con un grande possesso di scena, che aveva debuttato a Reggio, al teatro "Ariosto" nella stagione 1937/38, cantando "Bohème". Già nel 1935 era considerato una delle più belle promesse del teatro lirico italiano. L'avevo conosciuto a Parma, dal maestro Pizzarelli, presso cui studiavo pianoforte; discreta allieva, mi sono subito innamorata di lui per la sua sensibilità, gentilezza, intelligenza. La mia famiglia, di tradizioni un poco conservatrici, non vedeva di buon occhio un fidanzato "artista", ma l'amore ha vinto su tutto, e così ci siamo sposati. Per fortuna, dico ancora oggi, perché il nostro matrimonio ci ha dato ottimi frutti, nei due figli nati nel 1938 e nel 1942.
    Durante la guerra, Andrea è stato chiamato a disposizione del Ministero della Cultura Popolare, al fine di tenere concerti per le forze armate. In occasione del bombardamento del 7/8 gennaio 1944, per esempio, ha tenuto un concerto di beneficenza in favore delle famiglie dei caduti: era uno studioso, un artista che passava il tempo sugli spartiti e sui libretti di opere. Un uomo mite, che non sapeva la violenza e neppure la vita militare. Viveva nel suo mondo d'arte e d'amore, come del resto, anch'io. Io insegnavo in una scuola media che fu trasferita a S. Polo; e così anche noi ci siamo spostati in quel paese, come "sfollati".
    Vicino a casa nostra abitava una famiglia di antifascisti, i Guarnieri: due di loro sono stati arrestati dalla Brigata Nera e portati in carcere; mio marito, mosso a compassione dalle preghiere della madre, si è interessato presso il Comando e, per sua intercessione, i due fratelli sono stati liberati. Andrea era Sergente maggiore, ma dopo l'8 settembre, era scappato dal Distretto presso cui era in forza e se ne stava sempre con me a S. Polo. Studiava e cantava, ed io suonavo per lui. Eravamo felici e sereni. La sera del 28 marzo 1945, alcuni uomini hanno bussato alla porta con insistenza: volevano parlare con mio marito e sostenevano di essere militi della Brigata Nera: noi eravamo sorpresi, perché mai eravamo stati cercati e mai avevamo avuto rapporti con quella polizia né con altre; ho aperto, sono entrati tre uomini: quello che aveva parlato non mi era noto, ma gli altri due sì.
    Con la scusa di un interrogatorio mi hanno portato via il marito. Non l'ho mai più visto. Non so come, dove e quando è stato ucciso: so che sono rimasta sola con due bambini di 7 e 3 anni da crescere; sola e disperata. Vana ogni ricerca. 
    Mia madre, ricordo, mi fece giurare di non raccontare nulla ai figlioli; erano piccoli, ma poi, fino agli anni '50, si viveva in un regime di paura, anche fisica, che paralizzava ogni moto dell'anima ed inibiva la volontà. Morto Benatti uomo, non si è più parlato neppure di Benatti tenore; la città l'ha dimenticato; il nuovo regime ha politicizzato anche l'arte.
    Una volta diventato adulto, mio figlio Antonio si è recato da un famoso capo partigiano di San Polo, (* * ), a nostro avviso a conoscenza di molti fatti relativi a quei giorni sanpolesi: costui, tremante e confuso, gli ha risposto di non ricordare nulla, adducendo che l'età e gli acciacchi gli avevano fatto perdere la memoria...
    Qualcuno, dopo essere stato salvato da mio marito, ha ventilato l'idea che fosse una spia, che avesse un certo potere nell'ambiente militare; la verità è che Andrea Benatti era un artista benvoluto e rispettato proprio per quel suo essere "artista" e basta, lontano dalle cose militari e dagli ambienti polizieschi, nonché dalle stanze del potere. Ha chiesto un favore per due conoscenti... ed ha pagato con la morte la sua disponibilità e gentilezza...
    Iddio mi ha concesso di vivere fino a 90 anni e mai, dico mai, un giorno è passato senza che pensassi a mio marito, a chiedermi il perché di quella assurda, ingiustificabile esecuzione, commessa da chi lo conosceva, e lo sapeva così buono con tutti.»

Cesare Capiluppi, classe 1930
 
 
    «La mia famiglia è originaria di Bagnolo in Piano. Mio padre, Guido, classe 1886, era un agricoltore; è stato il fondatore ed il primo presidente della cantina sociale di Bagnolo: quando, nel 1936 uscì la legge secondo la quale nessun dirigente politico poteva essere tale se non prendeva la tessera del Partito Fascista, mio padre fu costretto a rinunciare dato che la votazione era stata manipolata, ritornando a fare il semplice agricoltore. Questo per mettere luce sul personaggio. Uomo schivo, semplice, onesto, contrario alla violenza che ha sempre condannato, badava ai suoi affari ed alla sua numerosa famiglia; i miei genitori hanno avuto infatti sei figli. Mio fratello Giovanni, classe 1924, in quel lontano 1945 era nel Vercellese a fare il militare, essendosi presentato dopo il bando Graziani. Ai primi di aprile è tornato in licenza; un giorno, il 15, per essere precisi, è andato a fare un giro in bicicletta a Fosdondo di Correggio: non è più tornato. Il 18 maggio, poi, alcuni uomini si sono presentati, di sera, a casa nostra, ed hanno invitato il papà a seguirli. Volevano informazioni; dopo tre ore è tornato, pensoso, preoccupato. Mia madre sperava che portasse notizie del figlio scomparso nel nulla. Si è trovata di fronte un uomo distrutto. Io non ho mai saputo il perché, o forse, lo so. Può darsi che sia stata minacciata la sua famiglia, se avesse parlato.
    Tre giorni dopo, il 21 maggio, sono tornati; hanno portato via mio padre, e per sempre. La nostra famiglia è rimasta decimata, tremendamente, in meno di un mese. Mia madre aveva l'ultimo bimbo di nove mesi che ancora allattava al seno.
    Perché? Io ancora me lo domando. E lei non venga a chiedere qui; vada da quelli che sanno, da quelli che hanno ucciso senza motivo un ragazzo e suo padre. Sono i colpevoli che devono parlare, non io, che porto ancora oggi sull'anima delle ferite tanto gravi. E assurde. Sono state commesse incredibili barbarie, in nome della "giustizia". Quale giustizia? Se si fosse trattato di un atto eroico, non avrebbero nascosto i cadaveri alle madri disperate... No, si vergognavano talmente tanto delle loro crudeltà, che molti, i "serial killers" del 1945, sono stati aiutati a "riparare" in Bulgaria, in Cecoslovacchia... nei paesi dell'est, nel paradiso comunista, dove loro, angeli del male, si sono potuti rifare una vita. Perché non sono rimasti qui a giustificare i loro massacri? Non erano eroi, patrioti? Il Chi sa parli è stato una tomba della verità. Io ho sperato, per 50 anni, di sapere, con una lettera anonima, con un segnale, dove sono stati sepolti i miei cari: mai nessuno ha fatto un cenno. Silenzio totale. Volatilizzati nel nulla. Come, quando, perché? E pensare che c'è in giro tanta gente che sa, che con una parola potrebbe mettere in pace molti cuori: perché non lo fanno? Io non ho rancori, solo vorrei ritrovare le ossa di mio padre; perdonare lo ho già fatto, cosa vuole, dopo 50 anni... Ma mi dicano, e lo chiedo col cuore in mano, dove sono Giovanni e Guido Capiluppi?
    Alcuni anni fa ho proposto - in sede Comitato per la celebrazione del 25 aprile - di mettere una lapide commemorativa per tutti i caduti di guerra; i vincitori ed i vinti. Credevo che almeno la morte li mettesse pari: no, in Comune l'hanno negato. E lei spera, crede in un'apertura? E' giovane, se pensa questo. Ancora non sa la vita e gli orrori del potere. L'unica possibilità di un'apertura sarebbe quella che gli assassini, in alcuni casi, dicessero: "sì, ho sbagliato"; sappiamo bene che i sicari spesso uccidevano senza neppure sapere chi sarebbe stata la vittima: dall'alto veniva un ordine - c'è da far fuori il tale - che veniva immediatamente e freddamente eseguito. Freddi e cinici portatori di morte agli ordini (per una sconsiderata idea di giustizia -pensi che giustizia -) di capi spesso ignoranti, rozzi, amorali. Ma nessuno tira quel filo della verità: sa perché? Perché c'è il rischio che tirando un capo della matassa si svolga tutta, mettendo sul tavolo della storia delle follìe ben coperte per mezzo secolo! Ma per parlare (perché chi sa, racconti), al fine di una autentica pacificazione, ci vuole dignità. E chi ammazza e poi scappa, non ne ha. Sa di aver commesso un grave reato, ecco perché sparisce dalla circolazione, oppure tace per sempre, costituendo quella famosa maglia di omertà, di cui se si tira un filo... Quindi, per sapere qualcosa, vada da coloro che in quegli anni bui erano i capi; loro sanno, non io.»

Dott. Enrico Capiluppi
 
 
    «Ho poco da aggiungere a ciò che ha già detto mio fratello, se non che la calunnia era la tecnica di solito usata da chi manipolava il potere per eliminare chi era di ostacolo ad una futura, e più strutturata, azione di dominio. Per giustificare morti assurde bastava che qualcuno dicesse: "...Era una spia... oppure... era uno di quelli buoni...!". O, più semplicemente, bastava lavorare un podere di proprietà, poche biolche, per essere considerati "agrari", possidenti... e meritarsi la morte, spesso dopo sevizie e torture. Nella mentalità corrente il piccolo borghese, il bottegaio, andava depredato; razziato. Come in questo caso: era la primavera del 1944, e tornavo da scuola in bicicletta col mio compagno di liceo Franco Bertolani. A metà strada siamo stati investiti da uno spezzonamento, e, purtroppo, Franco è stato ucciso. Alcuni giorni dopo, i compagni della nostra classe volevano ricordarlo con una Messa; io allora sono andato a casa sua, a Mancasale, dove i suoi genitori gestivano la privativa; la madre, quando mi ha aperto la porta, era pallida, agitata: mi ha fatto entrare, ed in cucina ho visto due partigiani i quali mi hanno perquisito e costretto ad andarmene con modi sgarbati. Poco tempo dopo gli stessi le hanno vuotato la privativa!
    Finita la guerra, le cose sono anche peggiorate: la diffidenza, il sospetto per chi non era (o dimostrava di essere) in odore di comunismo si tagliava con il coltello.
    Alla mamma, già privata di un figlio e del marito, spesso dicevano: "...Si tenga cara i suoi figli...". Minacce neanche tanto velate, a lei che non voleva iscriversi alla "Federterra"...
    Nel 1947 frequentavo l'Università a Bologna; più volte i Carabinieri mi hanno avvisato che ero tenuto sotto controllo, dai comunisti del paese, perché ero considerato elemento pericoloso. E questo perché ogni giorno prendevo il treno!
    Nel 1948 mio fratello ed io, gli unici di Bagnolo a non essere iscritti al "Fronte della Gioventù", siamo stati allertati, da alcuni amici, a non uscire di sera in bicicletta! Questi erano i sistemi democratici dei tempi: peccato che la storia dei vincitori, manipolando la verità, si sia dimenticata questi incredibili comportamenti.
    Ma ci sono stati, e mi fa piacere  ci sia qualcuno che, con coraggio, ne scriva.»

Gina Vinsani, classe 1926
 
 
    «Mio padre, Tullio Vinsani, classe 1894, era commerciante di granaglie. Durante la guerra era stato richiamato ed in quel periodo l'attività era stata sospesa. Con la mamma e mia sorella abbiamo tribolato per vivere. E' tornato a casa nel 1943 ed ha ripreso il suo lavoro; noi non abbiamo mai avuto noie da nessuno; né dai fascisti prima, né dai partigiani durante la Liberazione. Il 18 maggio 1945 mio padre si è recato al mercato a Reggio, in bicicletta. Sbrigate le sue faccende, intorno alle ore 13 era sulla strada del ritorno. Alcuni l'hanno visto, in bicicletta, pedalare tranquillo, alla sua destra. Non è mai più tornato a casa. Perché l'hanno ucciso così? Cosa aveva fatto di male, se il 25 aprile e le settimane seguenti noi si lavorava tranquilli nei campi, senza minimamente pensare di andare via, di nasconderci? Non c'era proprio niente di cui vergognarsi; eravamo lavoratori e gente onesta che mai aveva fatto male ad alcuno. Perché allora? Sto ancora aspettando che mi rendano il corpo di mio padre: poi morirei tranquilla. Ho insegnato ai miei figli il perdono e la tolleranza. Siamo credenti. Io prego perché, almeno uno, prima del passaggio finale, si redima ed abbia il coraggio di dire la verità, liberandosi così la coscienza di pesanti macigni. Sempre che ci sia in certa gente la coscienza.»

Ferdinando Burani, classe 1941
 
 
    «Già dalla fine degli anni '20 mio padre Aldo, classe 1902, nativo di S. Giovanni di Novellara, gestiva in Mancasale, proprio in questa casa, un emporio con annessa osteria-trattoria. Nel negozio aveva di tutto, come usava allora: alimentari, cartoleria, addirittura ferramenta... Tutto per tutti, e mio padre era contento quando poteva essere utile. Mi raccontava la mamma che, all'occorrenza, sostituiva il cursore, il postino... nel senso che la nostra casa era il punto di riferimento dell'intera frazione. I miei genitori erano sempre insieme, nel lavoro e nel poco tempo libero; avevano generato sei figli, ed io, che ero l'ultimo nato, godevo dell'affetto e della tenerezza di tutti. Stavamo bene, ci volevamo bene. Tutti si contribuiva alla gestione della trattoria e del negozio; tutti in allegria. Poi, un brutto giorno, credo il 25 aprile si è fermato davanti a casa un autocarro; sono scesi due uomini che hanno invitato mio padre a seguirli al Comando partigiano per delle informazioni. Senza alcun sospetto, dato che sul camion mio padre aveva visto altri uomini che conosceva, si è tolto il grembiule e li ha seguiti. Non è più tornato. 
    Mia madre era incinta del settimo figlio; non ha retto al dolore e, con  parto prematuro, ha dato alla luce un bimbo morto. Noi ci siamo stretti intorno a lei, ormai unico sostegno della famiglia.
    Nel maggio 1945 questa casa, per estremo oltraggio, è diventata "Casa del Popolo". Sì, in una stanza a pian terreno, i "compagni" avevano allestito una cellula del partito. Noi, per andare a letto, dovevamo passare tra le bandiere rosse.
    Questo fino ai primi del 1960. A dire il vero ci pagavano un piccolo affitto, ma avere in casa persone che forse sapevano chi aveva ucciso nostro padre è stato un poco difficile. Mio padre Aldo era iscritto al Partito Fascista Repubblicano, è vero, ma non aveva certo né l'interesse né il tempo di andare a fare sfilate in divisa, o, tantomeno, di partecipare attivamente alla vita politica. E allora, perché ucciderlo?
    Chi ha dato l'ordine di eliminarlo e di far scomparire il suo cadavere? Vede, i sicari provocano in me anche pena, ma i mandanti solo disprezzo. Perché la manovalanza è spesso rozza, ignorante... non sa bene quello che fa... va alla cieca, e alla cieca ubbidisce, come un bue. Ma chi comandava, in quel 1945, non può essere perdonato, perché aveva un fine preciso: quello di eliminare dalla circolazione chi apparteneva ad una classe sociale appena al di sopra dei mezzadri, degli operai...
    Solo i proletari avrebbero dovuto andare al potere, e gestirlo... Per fortuna tutto questo non è avvenuto, perché oggi l'Italia si troverebbe nelle condizioni dell'Albania o degli altri paesi in cui ha avuto il potere il Partito Comunista: cioè nella miseria e nella disperazione.
    Mio padre era un lavoratore, un uomo onesto e generoso con tutti. Se male ha fatto, vorrei sapere quale e a chi. Mi rassegnerei. Ma così... senza neanche un pezzo di terra consacrata in cui riposare... Questo ha spezzato il cuore di mia madre e rovinato, per anni, la nostra vita. Aspettiamo ancora un cenno, una segnalazione. Ma dubito che da quelle persone possa giungere un moto di umanità: sarebbe una contraddizione in termini.»
     
Einarda Sezzi, classe 1921
 
 
    «Sono nata a Massenzatico nel 1921. Mio padre, Paolo, faceva il casaro, ed era molto bravo nel suo lavoro. Infatti, dopo aver appreso il mestiere a Puianello, dove era nato, e a Pratofontana, aveva aperto il caseificio "Il centro", a Massenzatico, appunto, vicino alla villa dei Camuncoli, intorno al 1913. Con alcuni soci ha impiantato questa latteria sociale, che allora era all'avanguardia, perché aveva sostituito la caldaia a legna con quella a vapore. Ricordo che ancora bambina, vedevo appeso nel soggiorno di casa mia il ritratto di Camillo Prampolini, di cui mio padre era fervente ammiratore. Come tutti, anche il papà aveva preso la tessera del Partito Fascista, per poter lavorare; io stessa sono stata piccola italiana, poi giovane italiana... insomma, andavo a scuola e mi adeguavo alle necessità del momento. Per dovere, non per piacere, perché mi innervosivano i sabati fascisti... preferivo giocare con le mie amiche, che già dall'infanzia, erano Isotta Miari, andata poi in sposa all'avvocato Pier Carlo Cadoppi, Vilma Casoli, Serena Miselli e la farmacista Gisella Antolini.
    Si viveva discretamente; io aiutavo mio padre a fare il formaggio, ero esperta anche della parte chimica, e poi, a tempo perso, aiutavo la mamma che era sarta. Come tutte le ragazze mi piaceva andare ben vestita, e ci riuscivo, perché avevo la sarta in casa, e poi, a dire la verità, siccome dicevano che ero carina... uno straccetto mi stava bene addosso!... Credo di essere stata invidiata dalle ragazze che non potevano avere quello che avevo io. Però non sono mai stata vanitosa, diciamo meglio, presuntuosa. Ero una giovane felice, che viveva in una famiglia benestante perché lavorava tredici ore al giorno, con tre adorabili fratelli e dei genitori che non ce ne guastavano una.
    Mio padre era un uomo serio: non andava all'osteria, non fumava... sempre con la famiglia, a casa, a goderne le gioie. La domenica per me era il giorno più bello, perché, con le solite amiche si andava in giro in bicicletta, o alla chiesa a vedere le commedie, recitate dai ragazzi di Massenzatico; giorni felici, finché, inaspettata e crudele è scoppiata la guerra. Verso la fine del 1943 mio fratello Azio è scappato dal collegio per andare nei partigiani, in montagna, nella brigata «Saltini». Ricordo ancora che la sua ragazza era la figlia di Vittorio Saltini. I tempi erano mutati, erano diventati, più difficili: ancora si andava al ballo, sempre accompagnata dalla nonna, ma assai più raramente.
    Ai primi di maggio 1944 era accaduta una cosa che ha segnato profondamente la mia vita: ho conosciuto il Tenente Vladimiro Cacciari, un uomo di bellezza straordinaria; parlo di una bellezza non solo esteriore, ma dell'anima. Buono, gentile, garbato, mite, dolcissimo: l'uomo che ogni ragazza sogna di incontrare... il principe azzurro, insomma. Il Tenente Cacciari era arrivato a Reggio con la 2° Squadriglia Caccia dell'Aeronautica Repubblicana. La Provincia, come consuetudine, cercava ville disponibili per l'alloggiamento, la mensa ed altri servizi degli Ufficiali e Sottufficiali costituenti gli equipaggi della squadriglia stessa. E così viene requisita la villa dei Camuncoli, vicina alla mia abitazione.
    In casa di Curzio Lasagni si dava una festa; ci sono andata e vi ho conosciuto colui che doveva, di lì a poco, diventare mio marito. Il Tenente Cacciari era laureando in Economia e Commercio ed anche in Lingue e Letterature straniere, all'Università veneziana della Ca’ Foscari.
    Parlava correttamente francese, inglese e tedesco. Come premio di maturità, aveva chiesto al padre, commerciante di calzature pesarese, di ottenere il brevetto da pilota. Ed è stato proprio questo brevetto che più tardi, nel 1944, ha fatto sì che venisse mandato a fare il militare nell'Aeronautica. Ammetto che è stato un colpo di fulmine, tra noi: abbiamo ballato tutta la sera e da quel giorno eravamo sempre insieme. L'ho sposato con rito religioso il 27 agosto 1944, durante una sua licenza. Ci siamo poi trasferiti ad Albino di Bergamo, dove abbiamo vissuto una totale felicità. Nel marzo 1945 mia madre si è ammalata; abbiamo deciso quindi di venire a Massenzatico per trovarla; era ricoverata a Rivalta, dove si trovava la casa di cura del dott. Chiesi. Il pomeriggio del 9 marzo, in bicicletta, vado in tale casa di cura; mio marito era rimasto a Massenzatico con mia sorella. Sono arrivati tre uomini, tra cui un partigiano che mia sorella ha riconosciuto. Volevano parlargli; l'hanno fatto scendere, hanno preso la bicicletta di mio fratello e l'hanno portato via. Dopo due ore si sono sentiti degli spari. Provenivano da un podere nella zona tra Massenzatico e Fosdondo.
    Non l'ho più visto. Per otto anni ho passato tutti i campi di concentramento possibili, sono andata da tutti i comandi partigiani. Nessuno sapeva darmi notizie; qualcuno mi diceva che l'avevano portato in montagna e consegnato agli alleati...
    Nel 1953 viene pubblicato su di un giornale cittadino che un contadino, mentre ara, trova i resti di due uomini: uno di un messo comunale e l'altro di un uomo giovane, alto un metro e ottantacinque, con al collo una catenina con i dati: quelli di mio marito.
    Dopo il ritrovamento i Carabinieri hanno ricevuto una lettera anonima; vi si facevano dei nomi. Convocata, non ho detto nulla. Avevo solo dei sospetti, non delle certezze. Ricordavo solo che quando c'era stato uno spezzonamento, mio marito era corso al Campovolo per aiutare i feriti, che aveva trasportato all'ospedale con la macchina del gruppo... prodigandosi fino all'ultimo. Era un uomo profondamente cattolico, non iscritto al partito. Perché è stato così barbaramente ucciso?
    Una cosa rammento: prima di sposarci, nel giugno 1944, tre partigiani lo avevano fermato, davanti a casa mia, dicendo che dovevano parlargli; lo hanno invitato in casa di (* *) e gli hanno proposto di entrare in clandestinità. Al suo diniego, gli hanno preso il portafogli e la pistola di ordinanza, e l'hanno spedito in malo modo. Può avere importanza questo episodio? Non lo so. Mi sono tormentata per anni, chiedendomi sempre: perché... perché? Non so ancora darmi risposta, anche se alcune indiscrezioni di amici e conoscenti hanno fatto un poco di luce sulla vicenda. Certo non si è trattata di una morte di guerra, ma di qualcosa di molto personale. Un regolamento di conti... barbaro... assurdo. Il nome degli assassini è ancora avvolto nel mistero: la loro vigliaccheria no.»

Rag. Enrico Copelli, classe 1934
 
 
    «Mio padre, Alberto Copelli, è nato a Campagnola il 4 giugno 1889; di famiglia modesta, - il nonno infatti esercitava il mestiere di fornaio - è rimasto orfano presto. Ha avuto un'adolescenza non facile, di lavoro e poche soddisfazioni. Durante la 1° Guerra mondiale ha fatto l'autista di mezzi corazzati. Nel 1918 è tornato a casa, ed ha deciso di aprire un bar nella piazza centrale di Campagnola, il bar "Italia", gestito insieme alla nonna. Le cose andavano benino; il bar era sempre frequentato, anche perché mio padre faceva personalmente le bibite, degli stuzzichini... e poi, al piano di sopra, c'era la sala da biliardo... per riscaldare le sere fredde e monotone della bassa reggiana. In quel bar aveva messo tutto quello che aveva, e per pagare i debiti lavorava anche 16 ore al giorno! Per renderlo ancora più piacevole aveva comperato la radio, così, tenuta ad un discreto volume, poteva essere sentita anche da chi era seduto fuori, magari a godersi un sorbetto o a bersi un caffè. A dire il vero era frequentato da una clientela piuttosto scelta; vi andavano non voglio dire i ricchi del paese, perché era aperto a tutti, naturalmente, ma in prevalenza vi entrava la piccola borghesia paesana. Mio padre era orgoglioso dei suoi clienti; amava andare ben vestito, e per questo ricordo che la mamma a volte brontolava perché andava a comperare abiti a Bologna... era sempre ben rasato, fresco, gradevole. Questo il suo stile. Avendo egli fatto l'autista, a militare, ed avendo imparato a guidare molto bene, veniva spesso chiamato per accompagnare certe persone ricche a Reggio o dove credevano; sempre educato, gentile, impeccabile. Per esempio, era solito accompagnare a Montecatini un ricco agrario di Campagnola che lì andava a fare le cure termali.
    Per dire la verità, anche alcuni nostri parenti erano piccoli proprietari terrieri; piccoli, dico, nel senso che erano padroni del loro podere. Quando agli inizi degli anni ‘20 ci sono stati gli scioperi contadini, mia madre fu molto scossa... ci sono state, anche nei confronti di alcuni nostri parenti delle provocazioni... dei disturbi... niente di grave, ma sufficiente per intimorirli; ed è stato così che mio padre ha aderito subito al nascente fascismo, facendo anche la "Marcia su Roma" nel 1922. 
    E' stato uno dei primi fondatori dell'E.I.A.R. e del T.C.I. (Touring Club Italiano). Le cose andavano bene, per noi: nel frattempo il papà si è sposato, e siamo nati in tre. Una famiglia tranquilla e serena, che viveva una dignitosa vita di campagna. Nel 1936 ha venduto il bar, per motivi di salute ed ha fatto, per alcuni mesi, l'autista, salvo essere poi assunto alle officine meccaniche "Reggiane" in qualità di motorista. La sua malattia è poi peggiorata, tanto che è stato poi collocato a riposo.
    Nel 1943 era pensionato; non ricordo che facesse attività politica. So che ha lavorato, poco, nella TODT; poco, perché il suo male non gli permetteva di fare sforzi.
    La maretta, a Campagnola, è arrivata nell'ottobre 1944. I partigiani avevano attaccato il presidio locale della Brigata Nera, con lo scopo di far disertare il segretario del Partito Fascista Repubblicano che era diventato un loro collaboratore. La rappresaglia seguita, costava la morte di due partigiani. Da quel momento, vivere diventava sempre più difficile; un po' meno per noi, però, perché mio padre non faceva vita politica. La sera del 6 novembre 1944 Dino Lodini, amico di mio padre, è stato prelevato dai partigiani e portato sotto le nostre finestre. Chiamando a gran voce, cercava di convincere il papà a scendere; erano le 10 di sera. Mia madre seguiva il marito per le scale, pregandolo di non andare: c'era infatti qualcosa di sinistro nella voce di Lodini, di innaturale, che non convinceva, credo, i miei genitori. Quando mio padre ha visto, nel cortile, che Lodini era sparito, si è accorto dell'inganno, e di corsa, ha cercato di risalire le scale per rifugiarsi in casa. Ma una raffica di mitra ha solcato l'aria, il silenzio di quella sera ottobrina, ferendo a morte Alberto Copelli. E' spirato davanti ai miei occhi, gli occhi terrorizzati di un bambino di dieci anni. Per due anni ho portato la sua camicia; non volevo mai levarla, perché mi sembrava di avere addosso un poco di lui. Se so chi l'ha ucciso? Sì, ma non voglio dirlo; posso solo confermare che mia madre, di sfuggita, ha riconosciuto un certo (* *)... altro non voglio dire.
    Perché hanno ucciso mio padre? Guardi, certamente era fascista. Ma altrettanto certamente non ha mai fatto male ad alcuno o provocato la morte di chicchessia. So che negli ultimi mesi andava con un suo amico, certo Afro Boccaletti, a fare la guardia ai pali della luce, perché i partigiani cercavano di atterrarli. Questo, il suo "lavoro" politico. Ricordo che la mamma brontolava, per questo, ma lui scherzava con lei, dicendole che non c'era alcun pericolo, che non avevano mai sparato... era per lui un modo di stare con gli amici, qualche sera, e dare il suo modesto contributo al partito... un contributo da uomo gravemente ammalato e inadatto ad altri più pericolosi o sgradevoli servizi...
    Per anni, mia madre è andata alla foglia. Doveva mantenere tre bambini. Non ho mai visto mio padre in divisa. Alcuni suoi amici, fascisti come lui, ora godono di laute pensioni e di una vita più che dignitosa; uno di loro, (* *), è poi diventato partigiano... La conversione è stata questa: ha accompagnato i partigiani al Presidio fascista, si è fatto aprire ed ha permesso, in questo modo, il disarmo dei suoi militi...
    Non è un amaro commento, mi creda; è una considerazione.
    I suoi figli l'hanno visto invecchiare.
    Mio padre non ha tradito, invece; ed ancor oggi mi chiedo il perché di quella morte atroce. Atroce perché non è morto sul colpo: ha impiegato alcuni minuti a spirare, tra dolori lancinanti, davanti agli occhi terrorizzati di sua moglie e dei figli ancora piccoli... ha capito, e quindi deve essere stato doppiamente atroce.
    Chi lo ha tradito lo conosceva bene, era stato suo "amico", aveva creduto nella stessa idea, avevano frequentato lo stesso ambiente; sapeva che mio padre non è mai stato un picchiatore, un violento. E' stato un fascista della prima ora, questo sì, quasi benestante, che ha creduto come tanti, a Campagnola... Era forse considerato un agrario? Un possidente? Chi lo ha ucciso sa bene che non  era vero: ha sempre vissuto del suo lavoro, e quante ore nel bar! Dalle sei di mattina alla mezzanotte! Perché, allora? Magari me lo dicesse, mi metterei tranquillo, se sul capo di mio padre pendessero, documentate, delle accuse serie. Ma così... ormai sono anziano anch'io, ma quella notte del 1944 entra ancora nei sonni a tormentare, a provocare dolorosi sussulti e strette al cuore. Io non odio nessuno: vorrei solo sapere, da colui che ha causato la sua orrenda morte, il perché. Perché era fascista? Ma chi l'ha tradito non poteva lanciare pietre: perché aveva fatto lo stesso "peccato".»

Luisa Bertolucci, classe 1933
 
 
    «Mio padre si chiamava Mario Bertolucci, classe 1895. Già intorno agli anni 1921-22 aveva la tessera del Partito Fascista; ci credeva: non credo abbia fatto la marcia su Roma. So che era un cascinaio, come il nonno, e che lavoravano in proprio, nel comune di Novellara. Erano benestanti, per quei tempi, ma il loro benessere proveniva da una giornata lavorativa di dieci ore...!
    Le cose, con gli anni sono cambiate, economicamente, intendo, e così mio padre da proprietario diventa dipendente, e va a lavorare - sempre come cascinaio - a Noceto di Parma. Matrimonio e quattro figli: una famiglia pesante da mantenere. Ricordo che tornava a casa solo il sabato, in bicicletta, e quando noi bambini lo vedevamo arrivare, dal ponte, gli correvamo incontro felici di rivederlo e smaniosi di passare la domenica con lui. Lui prendeva sulla canna della bici la più piccina, a volte anche me, e così si arrivava nel cortile. Eravamo una famiglia felice, come tante in quella bassa reggiana però già tormentata da diverse opinioni politiche, dalla guerra civile che serpeggiava tra la gente, pronta a manifestarsi, con tanta crudeltà, nella tarda primavera. E così il giorno 23 aprile 1945 arrivano a Novellara gli americani, le truppe di liberazione; tutta la gente è corsa in piazza per vedere, attratta dalla curiosità: anche mio padre, insieme ad un vicino di casa suo amico, Piero Lombardini. Verso le 17, hanno bussato alla nostra porta due uomini: uno, sconosciuto alla mamma, mentre l'altro le era noto; cercavano mio padre. Quando il papà è tornato, sotto sera, saputo dalla mamma che un conoscente lo cercava, ha ripreso subito la bicicletta ed è andato in piazza per trovarlo e sapere cosa voleva. Non l'ho mai più rivisto. Verso sera la mamma ha saputo che era stato condotto nella Rocca di Novellara (improvvisate prigioni) insieme al suo amico Piero Lombardini, piccolo proprietario terriero, ed al fratello di questi, Leonida. Mio fratello Giuseppe è corso, allora, alla Rocca per portargli da mangiare; lo ha visto, gli ha parlato. Sembrava tranquillo; tanto che gli ha detto: "Non venire, domattina, a portarmi la colazione, perché verso le 11, dopo un breve interrogatorio, mi lasceranno libero". Così credevamo, così speravamo. Nostro padre non è mai stato un militare, ricordo che metteva la divisa solo per le feste; era un uomo tranquillo, che amava il lavoro e la sua famiglia.
    Cosa avrebbero potuto fargli?
    La mattina seguente mio fratello Giuseppe va sul ponte della Rocca verso le 10,30 per tornare a casa col padre; intorno alle 11 un camion, chiuso, e guidato da un certo (* *) si allontana verso Fosdondo a discreta velocità. Siamo rimasti sorpresi ed allora la mamma è andata dal parroco don Sante Pignagnoli, a chiedere notizie. Siamo rimasti inorriditi quando abbiamo saputo che tutti gli uomini fatti salire su quel maledetto camion erano stati uccisi vicino al cimitero di Fosdondo: si era già alla fine di maggio, e così, per motivi igienici, non ci hanno permesso di scavare, per recuperare i cadaveri dei nostri cari. Solo in ottobre la mamma ha potuto riesumare le povere ossa del marito, "sepolto" dentro al cimitero di Fosdondo, in una fossa lunga e stretta scavata dai prodi partigiani. Gli mancavano le scarpe e l'orologio da taschino, tanto caro al papà. Forse era fascista anche quello e quindi andava distrutto! Per alcuni mesi, sotto le nostre finestre passavano e ripassavano i partigiani più politicizzati di Novellara: si fermavano, sembravano voler ascoltare le nostre parole. Noi eravamo terrorizzati. La mamma, rimasta nella povertà, nell'indigenza, ha dovuto riprendere a fare la sarta da uomo; ma il lavoro non era sufficiente a far crescere tre figli (una si era sposata); so che abbiamo patito, e ancora di più per la mancanza di nostro padre; la mamma è improvvisamente invecchiata di vent'anni; ricordo che sembrava una larva, senza più voglia di vivere. Noi ragazze ci portiamo ancora quella ferita sulla pelle e nel cuore. Perché l'hanno fatto? Vorrei saperlo, sapere se mio padre ha ucciso o fatto uccidere qualcuno; se così fosse mi metterei l'animo tranquillo. Ma so bene che non è stato un assassino: assassini, e vigliacchi, sono stati loro. Chi? Io lo so. Sono di Novellara

Giuseppe Simonazzi, classe 1921
 
 
    «La mia famiglia è originaria di Borzano di Albinea, dove mio padre, Angelo, faceva il falegname. Eravamo sei fratelli, di cui quattro maschi, i quali aiutavano il babbo in bottega. Mario, nato nel 1920, era il più dotato per gli studi, e così ha frequentato il seminario di S. Rocco, a Reggio, dove ha conseguito la licenza ginnasiale. Profondamente religioso, egli insegnava il catechismo ai giovanissimi della parrocchia, gli "Aspiranti" della Azione Cattolica. Nel 1927 ci siamo trasferiti a Montericco, nella frazione di Vitala, e Mario è andato a lavorare, come contabile, alle officine "Reggiane", in città. Lì ha conosciuto l'ing. Piani, suo superiore, che diventerà poi membro del C.L.N. e primo segretario del Movimento Cristiano Democratico di Reggio.
    Dopo l'8 settembre, le "Reggiane" cadono in mano ai tedeschi, che decidono di trasferire macchinari ed operai in Lombardia, zona più lontana dal fronte e perciò più sicura. Mario, per non lasciar la famiglia, è costretto a licenziarsi; ma siccome non intendeva neppure arruolarsi nella R.S.I., si è nascosto ed ha fatto il clandestino per alcuni mesi. In aprile 1944 conosce il dott. Luigi Ferrari del Comando Piazza e, dopo aver meditato seriamente sul da farsi, decide di andare con i partigiani.
    Questo avviene in maggio, quando sale in montagna col nome di battaglia di Azor; e va dritto al Comando di Brigata, al comando di Miro e di Eros.
    Mario viene assegnato al gruppo guastatori, per la preparazione di mine e di bombe da usarsi nelle azioni di sabotaggio contro i tedeschi e i fascisti. Appena può, viene a casa, anche per poche ore. Noi siamo sempre stati una famiglia molto unita, ma il rapporto di Mario con la mamma era davvero particolare. Mio fratello raccontava che in montagna la disciplina era poca, mentre tanta era la propaganda comunista. Troppa, anche a detta dell'on. Marconi, che scriverà una lettera, ormai famosa, al C.L.N. provinciale, elencando i motivi di dissenso dei cattolici nei confronti dell'operato garibaldino.
    Durante una scappata a casa, Mario raccontava alla mamma la sua perplessità sulla "Lotta di Liberazione"; non gli parevano quelli i metodi per costruire una nuova Italia, libera, ma piuttosto le premesse per finire sotto un'altra dittatura. Decide, allora, di non tornare in montagna, ma di fermarsi a Borzano, insieme ad Ivo De Maria, Mario Manfredi, Amos Spadoni e di formare con loro due nuclei operanti: uno a Borzano ed uno a Montericco. Alla fine del mese altre due squadre, operanti ad Albinea e a Montericco alto, si uniscono alle prime; in tutto agiscono una trentina di uomini (1).
    Certo è che la Resistenza armata nella zona di Albinea è opera di Mario, il quale ne diventa il capo naturale, e che riesce a convincere due amici carabinieri (De Maria e Manfredi) a farsi partigiani abbandonando l'Arma.
    Mio fratello ha creduto nella Resistenza ed anche nella lotta armata contro i tedeschi, ma condotta con le dovute maniere. Egli accompagnava i suoi uomini a conoscere il territorio circostante, che conosceva benissimo: sentieri, boschi, macchie, caseggiati, perfino i fossi... e li addestrava, inoltre, alle piccole azioni di sabotaggio. Tutto questo fatto con spirito di umiltà, cercando di danneggiare al minimo la popolazione ed i luoghi. Mario sostenne che la guerra riguardava solo i militari; certi atti, procurando solo inutili sofferenze ai civili (le rappresaglie) erano dannosi, prodotto di incapacità e di ignoranza.
    Nel settembre ‘44 Mario va a Carpineti per incontrare un commissario garibaldino, suo amico, conosciuto a «Lama Golese»; non trovandolo, gli lascia un biglietto, nel quale lo prega di non mandare pattuglie nella zona di Albinea... dato che ci sono frequenti visite delle Brigate Nere... a causa di alcuni uomini di Lince che si sono troppo esposti...
    La richiesta, saggia, viene male interpretata dal comandante Miro che così la commenta ironicamente ad Eros : "...dalla lettera di Azor, risulta che i signori sappisti ci tengono molto alla loro tranquillità...". Caratteristica mentalità di certi capi della lotta armata, come sostiene, nella sua lucida ed attenta biografia di mio fratello, lo storico Sereno Folloni.
    Mario non vuole entrare in crisi con la popolazione locale, dato che intende la Resistenza in modo diverso da quella, troppo politicizzata, dei comandanti, commissari e dirigenti vari. Comunque, egli è sempre stato in prima linea, alla testa dei suoi uomini quando le azioni erano più pericolose; con coraggio, ma soprattutto con umanità egli aveva inteso la Resistenza. E con onestà: perché, purtroppo, c'erano delle squadre che di notte, venivano e assaltavano - armi in mano - le famiglie di contadini (ma non solo) per rubare denaro, generi alimentari ed altro, che non venivano però inviati alla intendenza partigiana, ma spartiti tra gli uomini stessi. Questo genere di atti erano messi in opera, per lo più, da squadre provenienti dalla V° zona, da Ca’ de Caroli. Azor  ha sempre cercato di impedire queste razzìe, anche con le armi; e questo comincia a creare, nei suoi confronti, astio, risentimento...
    A fine gennaio 1945 mio fratello viene chiamato alla vice-direzione della 76° Brigata S.A.P., quella che comprendeva i territori a sud della via Emilia. Si decide di cambiare il suo nome di battaglia: da Azor a Salardi. Ma perché questa chiamata? Per promuoverlo, o per allontanarlo dalla IV° zona?
    E' difficile dirlo, ora, che i capi partigiani sono quasi tutti morti... certo che Mario accettava sempre meno l'ideologia comunista, e che la sua situazione si aggravava, avendo ora, al fianco, un commissario politico...
    Il 19 marzo 1945 mio fratello va al distaccamento di Borzano-Montericco e vi passa le giornata insieme a Piero Cipriani, Anselmo Menozzi, ed altri; il mattino successivo, con una squadra, va a Tabiano per prendere contatti con Armando Pervilli, Marte; verso sera è a Regnano, ospite di una famiglia amica. La mattina del 21 avviene uno scontro con i tedeschi a Tabiano, vicino a Viano. Mio fratello decide di scendere a Viano, poi, nel pomeriggio, di andare a Baiso, per raggiungere il paese devono attraversare un torrente. A questo punto egli viene fermato da alcuni uomini; si ferma a parlare con loro e fa cenno all'amico Montecchi di proseguire, che poi li raggiungerà. Nessuno lo rivedrà mai più, vivo
    Sarà da me ritrovato il 2 agosto 1945, a Vera, località a due passi dal Comando di Brigata. Chi ha portato lì il cadavere? Chi l'ha ucciso? E dove l'hanno ammazzato?
    Io so che i miei genitori, mio padre in particolare, ha girato per mesi a cercarlo, battendo campi, fossi, case... chiedendo a tutti, con la disperazione nel cuore. Mia madre sembrava impazzire dal dolore... nella nostra famiglia è scesa, terribile, l'ombra della morte.
    Alla fine di marzo, Dossetti aveva mandato a Viano alcuni partigiani perché facessero una ricerca su Azor: interpellati civili e combattenti, avevano ricevuto in risposta la più imbarazzata omertà... (2)
    Mio padre ed io si andava in tutti i comandi partigiani, dopo il 25 aprile... ma uno dava la colpa all'altro... nessuno sapeva niente di preciso... qualcuno, addirittura, ci aveva detto che Mario era passato in Toscana, con gli Americani... Tante bugie per allontanarci dalla verità...
    Finalmente, il 2 agosto, un mio vicino di casa, certo Ferri, mi ha detto che a Vera un suo amico, Canova, aveva trovato nel suo podere un cadavere. Siamo partiti, due fratelli Ferri ed io, e ci siamo recati dal Canova. Questi raccontava che alcuni giorni prima era passato di lì il vecchio Simonazzi, in cerca del figlio, ma che lui non si era attentato a dirgli che suo figlio era proprio lì; sepolto in un fosso... Mentre raccontava io mi sentivo venir male... Lui non sapeva che io ero suo fratello... ha poi preso una vanga ed ha cominciato a scavare; sapeva molto bene come fare, quasi  che avesse visto bene come era stato messo...  Il corpo di mio fratello era già in stato di decomposizione, ma non abbastanza per non essere riconosciuto. In due siamo rimasti a guardia, mentre gli altri due sono andati a chiamare i Carabinieri di Vezzano sul Crostolo. Quindi, messo su di un carretto, abbiamo portato mio fratello al cimitero di Albinea. Mi ricordo un particolare: dopo il funerale, un suo amico, (* *) di Vezzano, è venuto a casa con noi. La mamma, come altre volte, l'ha invitato a restare per la notte: un poco a malincuore, egli ha accettato. La mamma, volutamente, l'ha messo nel letto del figlio morto ammazzato, nel letto del suo amico Mario... ma intorno alle tre, l’amico, preso da smanie, dava in clamori, e gridava che non poteva restare lì... che doveva assolutamente andarsene...
    Non capisco il perché. Lei come lo spiega? 
    Mio fratello è morto perché era un cattolico fedele ai suoi princìpi ed ai suoi amici. Lui era fedele, nell'amicizia. Mario è stato un martire inutile. Perché l'hanno ucciso? Perché, soprattutto, quel silenzio, che dura da 50 anni, quell'omertà... perché chi ha visto, chi sa... non parla? Tra partigiani... tra persone della stessa città... che avevano lo stesso fine, quello di liberare la nostra terra dal tedesco invasore...
    Mario, Azor, di sicuro ha perdonato; noi, che ancora lo piangiamo, facciamo molta fatica. Due dei suoi assassini sono già morti: l'altro è in vita. Nessuno vuole fare il suo nome... noi non cerchiamo vendetta, perché l'odio non alberga nei nostri cuori... ci chiediamo soltanto, io mi chiedo solo: perché? E se è stata una "giustizia", perché non se ne sono mai assunti la paternità?
    Perché di Caini, durante quel periodo, ce ne sono stati tanti. Peccato che la storia reggiana li abbia innalzati al rango di eroi!»
 
(1) Nella relazione del commissario di distaccamento Guido Grimandi, si legge: «Il 3° distaccamento SAP, ad Albinea, viene organizzato da Azor e da Bartoli Armando, Ragno,...». Istoreco, cart.76° Brigata.
(2) SERENO FOLLONI, Fede e Resistenza, Pozzi Editore, Reggio Emilia, 1995.

Geom. Giuseppe Artioli, classe 1934
    
    
    «Sono nato a Rubiera nel 1934, ma la mia famiglia si è trasferita a Scandiano nel 1940, dove ha gestito un negozio di generi alimentari all'ingrosso. Nel 1942, improvvisamente, è morto mio padre, e la mamma è rimasta sola in negozio, mantenendo l'attività con l'aiuto di mia sorella Virginia, classe 1923. Era lei, che, seppure giovanissima, prendeva cavallo e calesse ed andava a fare consegne di prodotti alimentari, anche lontano; ricordo che nell'inverno 1944 era andata a Monte Babbio, per consegnare merce: arrivata a destinazione, è però stata assalita da alcuni partigiani che l'hanno depredata e spogliata. Non è un modo di dire: le hanno preso cavallo e carretto, e poi, non contenti, le hanno fatto togliere le scarpe ed i vestiti... Quello è stato un fatto che l'ha sconvolta, ed aveva terrorizzato anche la mamma, che pure era abituata alle frequenti "visite" dei partigiani, che, armati, in piena notte, ci svegliavano per prelevare merce dal negozio, alimentari, ma soprattutto liquori. Due dei più solerti frequentatori notturni del nostro negozio erano i fratelli di (* *), che, pur conoscendo la nostra difficile situazione di una vedova con tre figli da mantenere, non si facevano scrupolo di razziare il negozio, lasciandoci in cambio dei buoni che poi, a fine guerra, non sono serviti a niente.
    Questi erano i tempi... d'altra parte il papà, Tommaso, pur non essendo un militare, aveva la tessera del partito fascista, e, credo, appoggiasse l'idea; questo, sicuramente, senza mai recare danno a nessuno; anzi, quanti crediti, quanti libriccini neri aveva nel cassetto, sui quali annotava i crediti... lunghe liste che talvolta non sono state onorate! Ma spesso i miei genitori tolleravano e perdonavano, soprattutto quando si trattava di famiglie davvero povere. Peggiore è stata la storia dello zio Archimede (fratello del papà), il quale gestiva una cantina enologica a Rubiera. Largo di vedute, aperto, generoso, prodigo con tutti, lo zio era stato nominato, durante la guerra, podestà di quel piccolo comune. A causa della sua magnanimità, era stato spesso ripreso dal Prefetto di Reggio, il quale gli rimproverava di spendere troppo denaro per l'ECA (l'Ente Comunale Assistenza) al fine di aiutare i bisognosi.... Ricordo che aveva fatto di tutto per attuare la costruzione del nuovo cimitero di Rubiera, dotandolo di un appartamento per il necroforo; questo fatto non è marginale, le spiego il perché. La famiglia del necroforo, invece di essere contenta di occupare - gratuitamente - un'abitazione comunale, ambiva ad un appartamento nelle case popolari; lo zio, con pazienza, li ha accontentati, scontrandosi anche con l'intero consiglio comunale che insisteva per costringere il necroforo ad abitare la casa assegnata. So, da amici e conoscenti, che lo zio ha solo fatto del bene, sempre e disinteressatamente, senza guardare al colore politico... Ha fatto il Sindaco, con coscienza ed onestà. La guerra è finita, ed il 25 aprile non ha toccato la mia famiglia. Ma alcune settimane dopo, verso la metà di maggio, egli ha subito un affronto terribile: alcuni facinorosi sono andati a prenderlo a casa e, con botte, sputi e calci, l'hanno costretto a mettersi davanti ad un carro colmo di sacchi di... ha capito,... di porcheria... e a trascinarlo, come se fosse stato un cavallo... o un asino... Fra gli sgherri emergeva il necroforo…
    Ad accompagnare questa penosa processione, poi una canzone che lo zio ricordava come un supplizio:
    
    Noi siamo la canaglia pezzente
    noi siamo chi suda e lavora
    smettiamo di soffrire ch'è l'ora
    smettiamo di soffrire ch'è l'ora
    ai Soviet noi diamo la mano
    l'Italia farem comunista
    a morte il regime fascista
    insorgiamo ch'è giunta la fin!
    Insorgiamo ch'è giunta la fin!
    Viva i Soviet! Viva Lenin!
    
    Le parole di questa canzone, come di altre del tempo, esprimevano quello che provava la maggior parte dei vincitori: e cioè che non bastava aver cacciato dall’Italia i tedeschi (giustamente) e di aver vinto la guerra civile, ma che bisognava anche attaccare la borghesia e quelli che la rappresentavano.
    Credo che la lotta di Liberazione sia stata anche di classe, parte di un processo rivoluzionario che avrebbe dovuto portare alla dittatura del proletariato. Anche Scandiano ha visto scorrere molto sangue a guerra finita. Perché era finita solo sulla carta: di fatto non sono state consegnate tutte le armi, che invece hanno continuato a sparare per anni.»
    A questo proposito, basta leggere alcune pagine di un libro, scritto da O. B. Saltini e R. Delmonte (1), in cui si legge: "...dopo il 25 aprile le forze partigiane vennero dislocate nella caserma dell'Artiglieria e venne l'ordine di consegnare le armi agli alleati. La reazione dei partigiani fu quasi del tutto negativa: sentivano che se avevano sconfitto il fascismo ed i tedeschi era solamente perché avevano lottato armati; sentivano che se si voleva eliminare la matrice del fascismo e della "reazione", si doveva continuare la lotta con le armi, fino alla eliminazione della borghesia e la instaurazione di un governo popolare... disarmati, non avrebbero contato niente... I partigiani non accettavano le direttive dei partiti politici e proseguivano a loro modo la lotta contro il fascismo e la borghesia... essi portavano avanti l'epurazione dei fascisti... epurazione che non andava avanti per l'opera di sabotaggio dei partiti borghesi come la Democrazia Cristiana, che voleva salvare i fascisti, giungendo fino a far sparire i documenti che provavano le loro azioni criminali... I partigiani aspettavano solo il momento di riprendere in mano le armi sotto la guida di un partito comunista che li avrebbe diretti alla conquista del potere... come nella Russia di Stalin;...". (2)
    L'obiettivo dei comunisti era dunque l'instaurazione della dittatura del proletariato, come si evince dalle parole dei due autori di provata fede. Ed ogni mezzo era lecito. Le armi continuavano a sparare e a uccidere. La guerra era finita, ma gli odî no; quelli sarebbero continuati ancora per molti mesi, oserei dire per anni. La pace è una conquista dura, difficile, ardua: ma necessaria; e per ottenerla, bisogna prima compiere un gesto che sarebbe davvero sintomo di civiltà: quello di riconsegnare ai familiari le salme, le ossa, ormai, le poche ossa di coloro che sono stati uccisi e nascosti da "fraterne mani assassine". Senza questo atto - dovuto peraltro - le coscienze dei figli e quelle degli uomini onesti restano inquiete.
    «Lo zio Archimede, sofferente di cuore, è rimasto molto segnato da quella umiliante esperienza. Di più, la vita, a Scandiano, era diventata impossibile; l’aria si era fatta pesante, e così, dopo aver venduto la cantina e l’intera proprietà, si è trasferito a Bologna, dove, per mesi, è stato ricoverato in ospedale. Fino agli ultimi giorni ripeteva ai parenti che l’andavano a trovare: … Perché… perché mi hanno trattato così… che li ho aiutati tutti…!?
    Me lo domando anch’io.»
 
(1) O. B. SALTINI - R. DELMONTE, La tana della tigre, ed. Delmonte, Montecavolo (RE), 1983.
(2) I comunisti avrebbero voluto, sì, eliminare tedeschi e fascisti, ma anche la Chiesa cattolica, che un giorno sarebbe stata la loro più accanita avversaria per l’instaurazione della dittatura rossa. E per questo hanno fatto nel reggiano una vera strage di sacerdoti inermi: don Luigi Ilariucci, don Luigi Manfredi, don Giuseppe Jemmi, don Dante Mattioli, don Carlo Terenziani, don Aldemiro Corsi, il seminarista Rolando Rivi, e, nel 1946, don Umberto Pessina.

LE RAGIONI DEI VINTI di Rossana Maseroli Bertolotti e Liano Fanti. Il volume di 201 pagine può essere richiesto al CENTRO STUDI ITALIA, al costo di lire 30.000.

 Renzo Ceci, classe 1931
 
 
    «Mio padre, Guglielmo, è nato a Poviglio nel 1893. La nostra famiglia era, già agli inizi del secolo, considerata benestante, dal momento che gestiva un caseificio di sua proprietà con diversi operai quali lavoranti, abitava in una bella villa liberty, e possedeva tre piccole stalle, tre cavalli, due poderi e macchine per aratura e trebbiatura conto terzi: ecco, ho fatto l'elenco delle proprietà, perché mi è sempre sembrato questo il motivo della successiva scomparsa di mio padre. Era un uomo tranquillo, gioviale, sempre gentile e comprensivo con gli operai, che trattava come amici; di questa sua amabilità possono testimoniare molti, a Poviglio: vorrei dire tutti quelli che l'hanno conosciuto e frequentato. La mamma è morta, giovanissima, nel 1934, lasciando due bimbi in tenera età: me, classe 1931, e mio fratello, classe 1932.
    Per anni il papà è rimasto solo con due piccoli, e si può immaginare la nostra solitudine dovuta a quella tragedia. Senza mamma, sì, ma con un padre che ha cercato di fare per due. Io ricordo quando, la domenica mattina, ci faceva salire sulla sua Lancia Augusta, acquistata nel 1937, e ci portava con lui al mercato del paese; eravamo tanto orgogliosi di lui! Ci comperava sempre qualcosa, e, con la sua affettuosa presenza, cercava di farci sentire meno la mancanza della mamma.
    Quando è scoppiata la guerra, tante persone cercavano di evitare di andare al fronte, naturalmente: mio padre, d'accordo col dentista, (anche facendo levare molti denti a quei giovani) è riuscito ad evitare la Russia a diversi, che in questo modo gli devono la vita. Ricordo alcuni nomi dei suoi salariati agricoli che possono dirsi vivi grazie a lui: Aurelio Bonacini, Dallaglio, Bonacini di Sorbolo, per esempio... Il suo amico più caro era il fabbro di Poviglio, oltre ai suoi dipendenti, naturalmente, che trattava come familiari. La guerra ha portato scompiglio anche nella nostra casa: la tessera, la mancanza di generi alimentari... però mio padre capiva che per sopravvivere era necessario "ungere" da entrambe le parti; tramite un mediatore, Ermes Casoni, mandava soldi e bestiame a Montecchio, da dove partivano per la montagna, per essere quindi distribuiti ai partigiani. Anche le visite, abbastanza frequenti, dei tedeschi, lo svenavano: partivano infatti, insieme a loro ed alla bionda interprete reggiana che li accompagnava: forme di grana, salami, prosciutti, latte... insomma, tutto quello che gli faceva gola veniva requisito! Si era tartassati sia dai fascisti che dai comunisti... solo che i comunisti, pochi mesi dopo, avrebbero ucciso mio padre e nascosto il suo cadavere!
    Il 25 aprile, a casa mia, è passato tranquillo: il lavoro al casello, come sempre, perché le mucche vanno munte anche se è il giorno della Liberazione. Alcuni giorni dopo, verso la metà di maggio, il Comando partigiano di Poviglio, domiciliato nell'attuale Caserma dei Carabinieri, manda a dire a mio padre di consegnare allo stesso cinque forme di "grana" ed i "famosi" finimenti da cavallo...
    Famosi perché motivo di contendere; mio padre aveva comperato finimenti molto particolari, nel 1938, da un ebreo di Viadana, insieme a tre cavalli che faceva uscire in fila indiana, una strana triglia, che si notava per la sua particolarità: probabilmente questi finimenti  assai particolari piacevano a qualcuno di Poviglio, che se ne voleva in qualche modo impossessare. E così, alcuni compagni del Comitato, a noi ben noti, requisiscono a mio padre cinque forme di grana sostenendo che prima della Liberazione aveva fatto mercato nero, ed i finimenti con la scusa che in paese si diceva che egli li avesse presi ad una colonna di tedeschi di passaggio...
    Domenica mattina 20 maggio, dunque, io sono salito sul carro ed ho portato in Caserma la merce richiesta; il papà mi seguiva in bicicletta. Lì arrivati, gli hanno fatto una specie di processo: seduti intorno ad un tavolo lo hanno accusato, appunto, di vendere sottobanco il formaggio, e di aver rubato i finimenti ai tedeschi...
    Nonostante la povertà e l'infondatezza delle accuse, mio padre spiegava che quando aveva comperato i finimenti c'erano testimoni, e che il formaggio serviva da dare, pezzo per pezzo, ai lavoranti, quando erano in momenti di particolare bisogno... oltre che, alcune forme, servivano di deposito nel casello... Ma purtroppo, contro la forza brutale, la ragione non vale... Dopo quasi un'ora di pacata discussione - mio padre era un uomo calmo e tranquillo - i partigiani hanno detto: "...Andate a casa, che entro domani sera sarà tutto sistemato...".
    Ricordo chiaramente queste parole, che allora ci avevano tranquillizzato. Lungo la via del ritorno eravamo infatti sereni, e mio padre si faceva trascinare dai cavalli, evitando di pedalare. Sembrava davvero tornata, dopo tanto tempo e tante pene, la pace.
    La sera dopo, il 21 di maggio, verso le 11,20, hanno bussato alla porta tre uomini con larghi cappelli di paglia ed il volto un poco coperto. Hanno chiamato giù mio padre che ha risposto: "Mi vesto e arrivo!"
    Anche noi ragazzi siamo scesi in cortile: era una notte di luna, limpida. I tre hanno parlottato un poco con papà, finché egli mi ha detto: "Vai su in camera e prendi il portafogli, il libretto degli assegni e la stilografica..."
    Ho ubbidito, e poco dopo si sono avviati verso il viottolo, dove aspettava un camioncino. Noi fratelli seguivamo il papà, preoccupati, e ad un certo punto uno dei tre si è voltato di scatto ed ha sparato con un mitra per terra. Dalla paura siamo scappati in casa.
    Mio padre conosceva quei tre; me ne sono accorto da come parlava con loro. Si fidava di loro, pensando che volessero dei soldi... o che volessero sistemare la questione dei finimenti o del grana... So che li ha seguiti senza opporre resistenza, mi sembrava in fiducia. 
    Non l'ho mai più visto. Sono rimasto col mio fratello più piccolo di me, affidati ad un tutore di Parma. Orfani e col marchio di "figli di un fascista". Mio padre aveva avuto, come moltissimi, la tessera, ma non era mai stato un militare. Faceva il burro e il formaggio, ed aveva la grandissima colpa di aver ereditato due poderi. Poi aveva la colpa di girare per Poviglio con dei finimenti particolari ai cavalli... finimenti che dopo la sua morte onoravano il cavallo di un carrettiere di nostra conoscenza, certo (* * )!
    Passando per la strada maestra di S. Sisto, l'autista del camion della morte, passando davanti al bar di Fava, ha gridato: "Il primo merlo è già in gabbia...", riferendosi a mio padre: dopo di lui, nella stessa notte, altri uomini sono stati prelevati, tra i quali l'ing. Carlo Garbarino, Carlo Cantoni, Vasco Dallaglio, e Lodovico Pergetti.
    Di nessuno si è più saputo niente.
    Dove li hanno portati? Perché, nonostante le reiterate suppliche, non ci dicono, anche con una lettera anonima, dove sono le ossa dei nostri cari?
    In paese correva voce che li avessero condotti a Campagnola, dove già erano stati sepolti Riccardo Soncini ed altri rinvenuti (nel famoso "Cavoun") nel marzo 1992. Noi familiari abbiamo cercato di far aprire delle fosse anonimamente segnalate, ma già subito dopo la guerra si ostacolavano queste ricerche.
    Mio padre, Guglielmo Ceci, ha aiutato, con soldi e bestiame, i partigiani che combattevano in montagna; non ha mai fatto male a nessuno, non ha fatto uccidere né mandare in carcere alcuno; ha aiutato, dato lavoro, e rispettato, per amor di pace, tutti: rossi e neri. Perché allora una morte così, e poi anche l'occultamento del suo cadavere? Uno dei tre assassini - io lo so - è ancora in vita, pur abitando in altro Comune; non avrà mai uno scrupolo, un senso di colpa per aver ucciso così ingiustamente? Chissà che prima di morire non gli vengano in mente gli occhi pieni di dolore e di terrore di quei due orfani e si decida a raccontare i suoi misfatti...
    Io me lo auguro, per me, certo, ma anche per lui...»

Roberto Pergetti, classe 1929
 
 
    «La mia famiglia abita da sempre a Poviglio, nella frazione di S. Anna. Mio padre era cascinaio, piuttosto benestante, dato che possedeva, e lavorava, alcune biolche di terra che circondavano una solida casa. Fino al 1945 la mia famiglia non ha avuto problemi, fino a quando, cioè, non è stato ucciso mio cugino Vivaldo Violi. Egli gestiva il bar a Quattro Castella ed un giorno, il 21 gennaio, di buon mattino, si era incamminato verso Reggio, per fare provviste di caffè. Non è più tornato a casa. Sparito nel nulla. Poi, qualche notizia, confusamente, cominciava a trapelare, finché, dopo alcuni giorni, la zia ha saputo che il cadavere del figlio penzolava da una quercia in località Canossa, proprio attorno al famoso castello. Era purtroppo vero: il povero corpo nudo di Vivaldo pendeva, irrigidito dal gelo e da uno spesso strato di neve, da un albero. Aveva trentatré anni; sua unica colpa, credo, l’essere andato volontario in Spagna, nel 1937.
    Ma anche a casa mia, a Poviglio, le cose si sono ben presto messe male. Il 26 o 27 aprile 1945 alcuni uomini si sono presentati alla porta ed hanno invitato mio padre Giuseppe a seguirli in caserma. Dopo un breve interrogatorio l’hanno rilasciato, poiché nulla di rilevante pendeva su di lui. Ma due giorni dopo sono tornati; l’hanno prelevato con modi bruschi e costretto a salire su di un camion, dove già si trovavano, pallidi e terrorizzati, i suoi fratelli Marino e Stefano (detto Lodovico) ed altri 5-6 uomini. Per vie traverse sono stati condotti a Castelnovo di Sotto dove sono stati ammucchiati – erano in 37 – in un’unica stanza del comando partigiano.
    Di lì ogni notte un camioncino rosso partiva, dopo aver caricato alcuni prigionieri, per destinazione ignota. Si è poi saputo che a volte si dirigeva verso la zona detta “Traghettino”, in cui venivano eseguite le operazioni di “sepoltura”.
    Per fortuna, mio padre e gli zii sono stati trasferiti a Reggio, nel carcere di S. Tommaso. Dopo circa quindici giorni, mio padre è stato condotto ai «Servi», mentre gli zii invece, al campo di concentramento di Fossoli. La nostra famiglie era stata violentemente smembrata. Ma le violenze più gravi dovevano, purtroppo, ancora avvenire.
    Una settimana più tardi, lo zio Marino, malato di diabete e bisognoso di cure, è stato mandato a casa in stato pietoso, preagonico; tanto è vero che due giorni dopo è spirato, quasi senza riprendere conoscenza. A Fossoli avevano avuto la mano pesante. Io allora, appena sedicenne, mi sono recato ai «Servi», per chiedere al direttore un permesso di ventiquattr’ore per il papà, perché potesse vedere un’ultima volta il fratello morto. Ricordo che indossavo delle scarpe del nonno, molto larghe: le mie erano consumate, e la mamma non poteva comperarne altre perché, dopo il 25 aprile, la Cassa di Risparmio di Poviglio (direttore Savini, lo scriva pure) aveva congelato i nostri risparmi. E per questo si era in miseria.
    L’incontro con il direttore è stato penoso ed umiliante, ma poi, viste le mie insistenze ed il mio pianto, ha firmato il sospirato permesso. Ho caricato allora mio padre sulla canna della bicicletta e via, col cuore in gola fino a Poviglio! Avrebbe dovuto rientrare al carcere il giorno dopo, ma la mamma ed io abbiamo insistito perché si nascondesse nei campi: non volevo perdere mio padre.
    Per quattro mesi abbiamo resistito alle continue sortite dei partigiani che lo cercavano e che volevano sapere da noi dove fosse: per due volte ci hanno sfondato la porta, ed ogni “inchiesta” è stata un supplizio. Ho un ricordo, preciso: durante il funerale dello zio Marino, due donne hanno insultato il prete perché accompagnava il feretro di un fascista. Non l’ho mai dimenticato.
    Il 20 maggio è tornato da Fossoli anche l’altro zio, Stefano; era magro, scavato, taciturno: in tre settimane aveva cambiato fisionomia. Una cena in famiglia, triste, e poi a letto. Sperava in una vita più tranquilla. Ma la sera dopo, il 21 maggio, intorno alle ore 22, si sono presentati alcuni uomini, non riconoscibili, che l’hanno costretto a salire su di un camion. La solita terribile, straziante scena. Insieme a lui sono stati prelevati, quella notte: Carlo Cantoni, Guglielmo Ceci, l’ing. Carlo Garbarino (che aveva commesso il reato di essere benestante) e Vasco Dallaglio. Di loro non si è saputo più nulla, e scomparse sono anche le loro salme.
    La mamma dell’ultimo caricato, Dallaglio, mi ha poi raccontato che sul camion gli uomini piangevano; sapevano già cosa li aspettava. La povera donna è poi salita sul tetto, per seguire con lo sguardo quel camion che le strappava un figlio dalla carne; ha visto, dunque, che dopo essersi immesso sulla strada che porta a Boretto, ha svoltato per la strada d’Este, quella che va verso Gualtieri. Meno di mezz’ora dopo l’automezzo faceva ritorno, vuoto. Si può quindi pensare che i nostri cari siano sepolti qui intorno, in zona.
    Diversi, e terribili altri episodi di violenza hanno visto i miei occhi di ragazzo: esperienze brutali che mi hanno fatto maturare alla svelta. Bisognava crescere in fretta, ed altrettanto in fretta dimenticare, per il quieto vivere; anzi, per salvare la pelle. La guerra civile è una tragedia per l’odio che semina; odio e risentimento lenti a morire. Ora ho settant’anni, e di acqua ne è passata molta, sotto i ponti; eppure, a volte trovo ancora persone - magari al bar – che si rifiutano di fare una partita a carte con me, che mi schivano. Forse perché sono figlio e nipote di fascisti.
    Ma, quando si presenta la persona giusta e l’occasione, pongo da sempre la stessa domanda: se è stato così colpevole, Stefano Pergetti, perché non viene giustificata la sua morte? Perché, dopo cinquantacinque anni lo stesso ostinato silenzio? Perché nessuno ci segnala il luogo della frettolosa sepoltura? Aspetto la risposta.»

Don Alberto Camellini, classe 1919
 
 
    «Nel 1944 sono stato mandato nella Parrocchia di S. Valentino di Castellarano in qualità di supplente del parroco don Olinto Marzocchini, da lì fuggito per aver subito un grave affronto dai partigiani, i quali gli avevano portato via tutto, compreso le scarpe che indossava. Un posto pericoloso, come si vede, ma io ci sono andato volentieri, con la speranza, supportata dalla giovane età, di poter far qualcosa per la mia Patria, che ho sempre amato, e per la gente del luogo, che viveva nel terrore e nelle difficoltà createsi in paese dal diffondersi di una guerra che diventava ogni giorno di più, civile. Il primo incontro "particolare", l'ho avuto pochi giorni dopo il mio insediamento; lungo la strada di Rontano, a S. Valentino, passavano, armati, due partigiani: mi sono fermato per parlare con loro, per capire meglio il loro atteggiamento, e dalla conversazione è emerso quanto segue: "...Vede, don Alberto, il nostro nemico non è più il tedesco - ormai chiaramente perdente - né il fascista, ormai alle corde... ma il ricco, il proprietario terriero, chi si è arricchito rubando ai poveri...". Ho avuto chiara la percezione che si stava combattendo una lotta di classe, una lotta davvero fratricida, dove a partigiani armati si contrapponevano paesani che avevano la colpa di aver ereditato qualche podere, o che avevano commesso il reato di studiare per diventare medici, veterinari, preti...
    L'8 settembre 1943 per me è stato un giorno di sofferenza: vedere la dissoluzione dell'esercito, militari che rientravano dai fronti laceri, con le scarpe rotte, demotivati, stanchi, smarriti... solo preoccupati di nascondersi, di finirla con una guerra in cui ormai non credevano e di cui, comunque, erano insofferenti. Ecco, questo non credere più in niente mi feriva, perché io, pur nella mia veste di sacerdote, avevo degli ideali: di giustizia, di amore patrio, di onore...
    Ricordo un episodio, per tutti: ai primi di ottobre 1943, mi trovavo, per caso, nel negozio del libraio Bizzocchi, nello stradone del Vescovado, in Reggio Emilia. La città era occupata dai tedeschi, che avevano addirittura puntato una mitragliatrice verso il Comune; nel negozio stavano alcuni sacerdoti, tra cui don Orlandini, Carlo, famoso partigiano fondatore delle "Fiamme Verdi". Accanto a lui una valigetta di fibra marrone, appoggiata a terra. Don Orlandini mi ha chiesto di accompagnarlo dall'ottico Mordini, per acquistare un paio di occhiali scuri: io mi sono offerto di portare la valigia, piuttosto pesante, ed insieme ci siamo recati nel suddetto negozio, dove alcuni militari tedeschi stavano facendo acquisti; poi, pian pianino, conversando, ci siamo recati verso la stazione delle corriere. Io chiedevo a lui cosa avrei potuto fare per la nostra povera Italia; ad un tratto, con un rapido movimento, don Orlandini si è sollevato la veste e mi ha mostrato i suoi calzoni militari, quindi, sorridendo amabilmente, mi ha confidato che la valigia da me faticosamente portata... era piena di bombe a mano...
    Sono stato felice di rischiare, se quel rischio è servito, anche in minima parte, alla causa della Resistenza. Ma attenzione, quando parlo di Resistenza, non mi riferisco a quel tipo di guerriglia che ha insanguinato per lunghi mesi la nostra provincia, caratterizzata da fanatismo politico che troppo spesso debordava in rancori e sfociava in massacri e vendette personali... Perché, diciamo la verità, se non ci fossero state la V° e la VIII° Armata... noi cosa liberavamo...?
    A S. Valentino, dunque, si respirava aria di paura; di giorno i partigiani che venivano a mangiare, a prendere generi di prima necessità, spesso a razziare; di sera le visite dei fascisti, e di notte le incursioni tedesche...
    Personalmente non avevo paura: aiutavo tutti, come potevo, offrendo cibo e scarpe a chiunque ne avesse bisogno, oltre, naturalmente, al sostegno morale e religioso.
    Non distante dalla Chiesa abitava una brava famiglia di contadini cristiani, i Rivi: il padre cantava nel coro parrocchiale ed il figlio quattordicenne, Rolando, suonava l'armonium. Quel 10 aprile 1945 il ragazzo era a casa, perché il Seminario di Marola, in cui studiava, era stato, tempo prima, occupato dai tedeschi; dopo aver assistito, come ogni giorno, alla Messa, egli se ne era andato in un boschetto accanto alla sua abitazione per studiare. Quando la madre, passato il mezzogiorno, è andata a cercarlo, ha trovato, al posto del suo ragazzo, i libri sparsi e, tra le pagine, un biglietto con scritto: "...Non cercatelo, è venuto con noi un momento. I partigiani."
    Colto da un tragico presentimento il padre chiedeva a tutti del figlio: Rolando indossava la tonaca e, in quei tempi, si sa, molti erano coloro che consideravano i preti "ragni neri da schiacciare"... Nulla, silenzio.
    Solo la sera del 13 aprile, due uomini, uno dei quali era il partigiano (* *), provenienti da Ceredolo, venuti in canonica, mi hanno riferito voci sull'arresto del Rivi, considerato dai partigiani spia dei tedeschi, e del suo trasferimento a Farneta, sede di un tribunale partigiano. Per questo, la mattina seguente, col padre di Rolando mi sono recato in quel luogo, dove ho saputo dal comandante Narciso Rioli che il ragazzo era stato preso alle Piane di Monchio ed ucciso. Siamo quindi corsi alle Piane; (**), da me interrogato, ha cinicamente confessato: "In seguito alla decisione presa di passare per le armi il giovane, ordinai a due partigiani di preparare una fossa... e quindi lo portammo lì... Egli capì che stava per essere ucciso ed allora mi si buttò ai piedi supplicandomi di avere pietà di lui. Ma, senza nemmeno pensarci, io gli sparai contro due colpi di pistola: il primo colpo alla tempia lo freddò, ma per assicurarmi gli tirai un secondo colpo... Subito me ne tornai al comando lasciando agli altri il compito di seppellirlo...". (1)
    Quanto al comandante della formazione "Martelli", (* *), su di lui pendeva un'accusa infamante: l'uccisione di una sua zia, Stella Sabbatini, avvenuta il 5 agosto 1944, a colpi di mitra.
    Lo stesso (* *) sostiene: "... E' opinione che fosse una spia dei fascisti... almeno così credo... certo il Rivi aveva tendenze ideologicamente opposte alle nostre, proprio in fatto di movimento partigiano...".
    Rolando Rivi è poi stato "sepolto" sotto una spanna di terriccio e di foglie; io stesso, aiutato dal povero padre, ho riesumato il cadavere, l'ho sommariamente lavato, e composto in una povera cassa. Quindi, la mattina seguente, è stato sepolto al Camposanto di Monchio, per essere poi traslato in quello di S. Valentino appena finita la guerra. Dagli atti del processo risulta che del suo abito talare i partigiani fecero una palla che si divertivano a calciare, quindi essa fu appesa alla porta morta di una casa colonica dove sventolava oltraggiosamente.
    Sebbene molto grave, non è stato questo l'unico episodio doloroso a cui ho assistito durante i mesi vissuti in quel di S. Valentino. Ricordo quando alcuni partigiani hanno catturato uno dei loro, certo Cavurain, che aveva tentato l'arresto di don Terenziani; era, costui, un comunista che ad un certo punto era passato con i tedeschi; pentitosi poi di tale tradimento, intendeva ritornare sui suoi passi, per rientrare nei ranghi. Alcuni "compagni" sono venuti a prenderlo, in Canonica (aveva infatti pranzato con me) e l'hanno portato a Farneta, dove, dopo un sommario processo, l'hanno ucciso vicino al locale cimitero... A dire il vero Cavurain non si era macchiato solo di tradimento: aveva già ucciso, nei boschi di Gavardo, il suo compagno Rossi, che aveva partecipato con lui ad una rapina rifiutandosi poi di spartire il bottino...
    Il 25 aprile è passato anche da S. Valentino, in modo abbastanza indolore. Io vivevo in odore di sospetto dai comunisti locali, in quanto conoscevo, per aver parlato con alcuni di loro, gli assassini del giovane seminarista Rolando Rivi, oltre a molte altre cose. Aggiungo poi che durante i primi comizi del dopoguerra, quando i capipopolo sostenevano di rispettare la religione, il sottoscritto, presente alle loro adunate, sollevava il ritratto del giovane seminarista e chiedeva: "...E questo chi l'ha ucciso?". Questi interventi, naturalmente, erano poco graditi; tanto poco, che la notte del 4 novembre 1945, verso l'una e trenta, ho subìto un attentato. Alcuni uomini picchiavano rumorosamente alla porta della Canonica chiedendomi, con arroganza, di aprire; uno parlava per tutti, (* *). Dalla finestra semichiusa mi sono negato, ed allora, precisa, una scarica di mitra mi è passata a pochi centimetri dal volto; i bossoli si sono conficcati nel muro. Era chiara l'intenzione di uccidere di questi "bravi". Il (* *), in Corte d'Appello a Bologna, durante il processo, fu definito dal Giudice "rottame dell'umanità", in quanto aveva al suo attivo diversi altri reati, rapine, razzìe. Certo parte della manovalanza partigiana era raccolta tra i relitti della società, tra individui disposti a tutto per due soldi, che nulla avevano a che fare con coloro che credevano negli ideali della Resistenza, che per essa hanno lottato, coraggiosamente combattuto e dato la vita.»
 
(1) Testimonianza resa al processo di primo grado di Lucca il 9 gennaio 1951. «Il Mattino», 10 gennaio 1951.

Enzo Tondelli, classe 1910
 
 
    «Dai tempi lontani sono stato il macellaio di Bagnolo: il mio negozio, come muri, apparteneva alla Chiesa, che lo aveva ceduto in affitto alla mia famiglia. Una famiglia tranquilla, che badava a lavorare, perché doveva sfamare molte bocche. Una famiglia cattolica, che rispettava tutti, e che da tutti era rispettata. Poi è scoppiata quella maledetta guerra; io sono andato in Libia, a Bengasi, come carrista, mentre i miei due fratelli hanno creduto bene di arruolarsi nella M.V.S.N.. Nel 1943 ero a casa, in licenza agricola; deve sapere che avevo un "Landini" che era ottimo per arare, e così io mi recavo ovunque ci fosse bisogno di lui e di... me! Siccome commerciavo anche in cavalli, la carne non mancava mai: ma, e chiamo i vecchi a testimonio, non abbiamo mai negato un pezzetto di bollito a nessuno, e quando i più indigenti non potevano pagare, le loro liste, sul librettino nero, si allungavano molto... ma noi non si sollecitava, aspettando tempi migliori e sperando che, chissà... un domani, finita la guerra, potessero pagare! Ma nonostante la nostra totale disponibilità, abbiamo dovuto subire alcuni affronti: per esempio, un brutto giorno si è presentato un contadino di Gavassa, (* *), dicendo che doveva sequestrarmi quattro vacche. La mia stalla era a S. Michele, ed era tutto il capitale della famiglia, composta di sette fratelli, più naturalmente, i nostri genitori. Dunque quella pretesa, anche se lo scopo - a suo dire - era quello di distribuire la carne al popolo, ci avrebbe messo sul lastrico.
    Ma le vacche sono state portate via, e, davanti alla mia disperazione, ha minacciato di uccidermi anche la cavalla. Un'altra volta sono venuti in macelleria, a Bagnolo, e mi hanno vuotato il frigo; non contenti, sono passati anche da casa e l'hanno razziata: panni da letto, lenzuola, la radio, coperte, alimentari... c'erano solo le donne, sa... e loro non hanno opposto resistenza. E poi, che resistenza si poteva fare davanti a tanta prepotenza? Erano armati... e non nascondevano neanche il volto, perché la mamma li ha riconosciuti: erano proprio di Bagnolo.
    E siamo arrivati, purtroppo, a quel 25 aprile 1945, giorno della cosiddetta "Liberazione": mio fratello Alberto, di 44 anni, sposato e padre, è stato ucciso, insieme ad altri, sul ponte del Crostolo, a Reggio, dalle parti di S. Stefano; mia sorella Clementina è corsa per riconoscere il cadavere, e quando è tornata a casa, piangeva forte e diceva: "Li hanno ammazzati come cani...". Alberto era un bell'uomo: bello ed elegante; direi che si distingueva tra gli altri giovani, di solito molto smessi. Quello di tenersi su era una sua idea...e credo che per questo, ed anche perché si aveva la macelleria, si sia attirato molte antipatie.
    Era fascista, ma che io sappia - e vorrei saperlo se qualcuno può affermare con sicurezza il contrario - non è mai andato a sparare contro nessuno e neanche faceva parte delle Brigate Nere... andava alla Milizia quando c'erano delle feste, quando si doveva andare in parata, ma era quasi sempre in bottega...
    Pochi giorni dopo averlo sepolto, è toccata a me: una mattina (7-8 maggio) si sono presentati alcuni uomini e mi hanno detto di seguirli alla palestra comunale; lì erano assembrate una trentina di persone, tra cui l'ostetrica comunale Benedetta Barchi. Io non capivo il perché di quella restrizione, ma loro dicevano di stare calmi, perché chi non aveva commesso reati sarebbe stato rilasciato. Io tranquillo non ero, perché in quei giorni a Bagnolo sparivano le persone e non si sapeva bene dove... anzi, lo sapevamo... Per fortuna mia, un contadino partigiano, che mi conosceva bene perché mi vendeva le bestie, ha testimoniato per me, e così alla sera, sono potuto tornare a casa mia. Ma lo spavento è venuto dopo, quando ho saputo che tutti gli altri che erano con me sono stati seviziati, torturati e quindi uccisi. Pensi che l'ostetrica è stata sepolta viva con un braccio fuori dalla terra, ed un giovane partigiano, vedendo quel braccio che ancora si muoveva, è svenuto...
    Non sono favole, sa, perché costui c'è ancora... e se volesse parlare, credo che avrebbe molte cose da dire sulla crudeltà, a volte del tutto ingiustificata, della cosiddetta polizia partigiana! A Bagnolo sono state uccise una ventina di persone, ma la maggior parte erano civili che avevano la sola colpa di essere stati fascisti. (1)  Questo abbiamo passato, ma non basta. Finita la guerra, quando tutto avrebbe dovuto tornare nella normalità, per la mia famiglia è cominciato un periodo molto difficile: i comunisti proibivano alla gente di venire a fare spesa da noi... Le mie zie, molto credenti, quando dovevano andare alla Messa, venivano oltraggiate e disturbate dai giovinastri che, seduti davanti al bar della Casa del popolo vicino alla Chiesa, lanciavano loro pesanti offese. Mia zia Santina, poiché era impiegata in Municipio, alla Annona, è stata costretta a girare per il paese e mentre camminava la insultavano; ad altre hanno rasato i capelli. Ricordo che andavamo a dormire da mia suocera perché a Bagnolo non si era sicuri... e guardi che erano passati mesi da quel 25 aprile! Anzi, anche anni dopo - io ricordo il periodo preelettorale del 1948 - i cattolici venivano sbertucciati ed anche offesi; si tribolava, quando si doveva andare dietro alla Madonna Pellegrina! Se potevano, cercavano di impedire agli altri - ai non comunisti - di esercitare i loro giusti diritti. L'hanno fatto per molti anni. 
    Perché questa era la loro democrazia. Ci sono state persone brave e delinquenti da ogni parte: la guerra civile porta così, ma la crudeltà esercitata da alcune bande di partigiani, nella "bassa", si può paragonare a quella che hanno usato i nazisti: parola di un vecchio, quasi novantenne, che la vita, e le sue brutture, le conosce. Per aver visto, per aver vissuto anche in prima persona, posso proprio dire che la democrazia che volevano instaurare i comunisti del 1945 era quella che ci hanno mostrato - e ce ne hanno mostrato solo un po' -; ringrazio il Cielo che ci ha mandato un De Gasperi, perché sennò, adesso, altro che Albania...»
 
(1) A dire il vero, a Bagnolo il contributo di sangue da parte anticomunista è di 25 persone: Benedetta Barchi, ostetrica; Luigi Bigliardi, bersagliere in libera uscita; Giovanni e Guido Capiluppi (dispersi, di cui ho trattato particolarmente); Ernesto Carmignani; Antonio Corazza, possidente, ucciso il 25 aprile nel suo letto, dove si trovava, infermo; Antonio Ferrari, milite della G.N.R., ucciso, però, nel 1944 in occasione dell'assalto al Presidio;  Nettuno Gatti, impiegato comunale; Giovanni Gherardi; Attilio Ghinolfi, ucciso insieme ad Alberto Tedeschi; Ovidio Liviano, ucciso nel 1944, verso mezzogiorno, mentre rincasa:  "...Raggiunto e freddato alle spalle -coraggiosamente - da due ciclisti"; Mario Matroni; Giovanni Motta già Maggiore dei Bersaglieri e Comandante della Caserma Zucchi come Maggiore della G.N.R.: disperso; Davide Onfiani, Capitano dell'Esercito e Segretario Comunale di Bagnolo; Aldino Cleante Paterlini, fattore dell'azienda agricola Corazza di Bagnolo; Guido Persia, Bersagliere della Divisione Italia; Armando Ronzoni, di anni 47, ucciso il 24 aprile 45; Rossi... di S. Tommaso di Bagnolo, ucciso il 16 maggio 45 insieme a  Giuseppe Pavarini e ad uno dei fratelli Marchetti di Novellara; Luigi Saccani, prelevato il 6 maggio 1945, disperso; Roberto Saccani; Renzo Sacchi, di anni 29, agricoltore; Giovanni Spaggiari, disperso; Oscar Torelli, disperso. Per dispersi, naturalmente, si intende "cadaveri mai più ritrovati".

Luciana Gibertini. Classe 1926
    
    
    «La mia famiglia è originaria di Ciano d'Enza, ma dopo la fine della prima guerra si è trasferita a Reggio. Qui ho imparato a lavorare da sarta alla famosa scuola "Fontanesi", scuola che insegnava alle apprendiste anche una certa educazione, un tratto ed una gentilezza che avrebbero dovuto far parte del nostro futuro comportamento; educazione che mi ha segnata, dato che, un poco per natura, ed un poco per il motivo sopraddetto, ho poi messo il rispetto verso gli altri e l'educazione davanti a tutto. Anche durante la guerra lavoravo: casa e lavoro, ma poi, finalmente, l'amore, nella persona di Ferdinando Magnani, di professione meccanico, che nel 1944 ho sposato. Mio marito credeva, come tanti, nella dottrina fascista, e dopo l'8 settembre 1943 si era iscritto nella Guardia Nazionale Repubblicana; a volte faceva servizio nel presidio di Reggiolo, proprio come aggiustatore meccanico. Il 25 aprile 1945 si è presentato, spontaneamente, al Comando partigiano situato presso l'attuale caserma Zucchi, da dove è stato portato ai «Servi»; in questo carcere ha passato sei mesi, fino al novembre, e, - lo devo ammettere - trattato non malissimo; voglio dire che non è stato picchiato, diversamente da molti altri. Ben diversa è stata, invece, la sorte di mio fratello Luciano; classe 1929, appena compiuti 16 anni, cioè l'11 febbraio 1945, è stato chiamato a far parte del presidio di Montecchio; so di preciso che nei due mesi in cui ha fatto il "militare", proprio per l'età, non ha mai partecipato ad azioni di "disturbo": era sempre nella casermetta ad aiutare in cucina, a rispondere al telefono... insomma, un ragazzino "jolly"... come si direbbe oggi. Il 25 aprile il presidio è stato catturato da un gruppo di partigiani, e Luciano è stato condotto, insieme agli altri, al Comando di Vedriano, situato dietro le scuole. Mentre i più vecchi, dopo un processo sommario, sono stati uccisi e seppelliti sulle colline intorno a Vedriano, mio fratello ed un altro ragazzo di 17 anni, di S. Polo, sono stati trattenuti nella scuola. Per cinque penosi giorni, finché, nella notte del 30 aprile, sono arrivati due partigiani in auto che li hanno prelevati, portati nei boschi di Cernaieto ed uccisi con un colpo di pistola in bocca. So che c'è stato vilipendio di cadavere, so che sui due poveri ragazzi è stato urinato e defecato... so questo per precisa testimonianza di don Canedoli, parroco di Vedriano, che aveva trasferito i dati a don Pasi, parroco di San Pietro, da me disperatamente interpellato per sapere la verità.
    Uno zio, Oreste Gibertini, abitante a Ciano, saputo della feroce uccisione del nipote, si è recato sul luogo indicatogli ed ha cominciato a scavare; ma ha tribolato per poco, perché la povera salma è riaffiorata subito, col volto completamente sfigurato. Ha quindi provveduto a seppellirlo più in profondità, perché non si potevano muovere i cadaveri. Solo pochi mesi più tardi, per una precisa segnalazione nostra, l'autorità ha disseppellito i cadaveri e li ha trasferiti al cimitero di Casina, dopo l’autopsia. Molti anni più tardi, una mia cara amica, R.M., moglie di un partigiano, mi ha confidato che mio fratello è stato ucciso da un garibaldino di nome (* *), poi emigrato all'estero con il fraterno aiuto e la benedizione dei dirigenti del Partito. Posso aggiungere che questo "eroe", nell'estate 1945, faceva il portinaio ai «Servi», facendo da tramite tra i detenuti e noi parenti, che portavamo loro qualcosa da mangiare; bene, questo figuro, dopo aver compiuto una rapina a mano armata, diventando probabilmente un pesante fardello anche per i suoi, è stato mandato in Belgio... In quel periodo si trovava in carcere anche mio padre, Giuseppe Gibertini, accusato da un "minus habens" sempre ubriaco, di appartenere alla R.S.I. e di averlo minacciato con un moschetto. La montatura è poi venuta a galla al processo, quando il (* *) ha ammesso che era stata la (* *), l'ostessa di un caffè, fervente comunista, a convincerlo di dire così... al fine di punire quel fascista di Gibertini...
    Ma non basta: il 26 aprile 1945, alcuni partigiani hanno arrestato anche i miei cognati, Carlo e Renzo Ruozi, abitanti a Reggio in via Toschi; la moglie di Carlo era incinta, mentre Renzo era papà di una bimba di cinque mesi. Li hanno prelevati, caricati su di un camion dove già erano "sistemati" una trentina di altri fascisti, ed hanno fatto il giro della città tra gli sberleffi, gli insulti, gli sputacchiamenti e le urla della gente inferocita; alla berlina, come degli animali da circo: la colpa? Quella di avere avuto la tessera del P.R.F. Renzo è stato trasportato a Bagnolo ed ivi ucciso il 27 Aprile; nello stesso giorno in cui Carlo veniva fucilato a Gavassa.
    La salma di Renzo è stata reperita un anno dopo a San Tommaso della Fossa, mentre quella di Carlo non è mai stata trovata.
    Ecco, questa la penosa storia della mia famiglia. Credo  che non ci sia bisogno di commenti, perché la tragedia di quella terribile guerra civile salta fuori da sé; voglio aggiungere che la nonna ci ha dovuto prendere tutti con lei, in casa sua, perché siamo rimasti alla fame ed in miseria; alcune delle mie clienti mi hanno detto che "qualcuno" proibiva loro di venire a farsi vestire da me... dalla moglie e sorella di fascisti... ma per fortuna qualcuna ha disertato da quell'ordine... Mio marito, però, quando è uscito dal carcere, non è più riuscito a trovare lavoro... tutte le porte erano chiuse per lui... l'epurazione ha proprio causato questo; che gli ex fascisti hanno perso il posto, mentre i partigiani si sono accaparrati i lavori degli altri... semplice ricambio di posto... e così migliaia di famiglie sono rimaste sul lastrico. Nel 1950, così, ci siamo visti costretti ad emigrare; solo per alcuni anni, ma abbastanza per provare "come sa di sale lo pane altrui...".»

CONCLUSIONI (da LE RAGIONI DEI VINTI di Rossana Maseroli Bertolotti e Liano Fanti. Edito presso il Centro Studi Italia)
 
 
    Quando si indaga un accadimento storico, si deve innanzitutto risalire a una causa o a un complesso di cause sufficienti a spiegare il fatto, salvo poi svolgere un'operazione critica per evitare che ciò che si presenta di necessità logica, cioè una spiegazione, diventi a tal punto la spiegazione da sostituirsi al fatto stesso, negando ogni possibilità di revisione.Occorre in ogni caso essere molto diffidenti nei confronti di interpretazioni che siano, a livello causale, manifestamente inadeguate.
    Il fatto che ci si presenta può essere così sommariamente descritto.
    Durante la Resistenza, ma anche per numerosi mesi successivi alla sconfitta tedesca e dell'alleato italiano inquadrato nella Repubblica Sociale, un numero imprecisato ma ragguardevole di persone, nel Nord Italia e in particolare a Reggio Emilia e nelle province limitrofe, vengono assassinate in modo particolarmente efferato e i loro cadaveri quasi sempre occultati. Nessuna delle vittime di cui si parla nelle testimonianze raccolte in questo libro era elemento di rilevanza sostanziale della gerarchia fascista o repubblicana; soprattutto, nessuna svolgeva un ruolo attivo di opposizione nei confronti della Resistenza.
    Di questi fatti, di cui non ci si occupa, salvo sporadiche eccezioni, né a livello giudiziario né a livello storiografico, praticamente per cinquant'anni, rimane una memoria viva e dolente nei familiari delle vittime, ma anche una memoria diffusa in tutta la popolazione: il fenomeno è stato infatti così massiccio che nessuno dei contemporanei può dire di non essere stato testimone diretto o indiretto della sparizione di un amico, di un vicino di casa, di un compaesano.Tale memoria diffusa assume però intensità e coloritura diverse a seconda del coraggio personale e del credo politico.Si va dalla denuncia al silenzio - ora spaurito, ora rassegnato, ora imbarazzato - all'aperta giustificazione dei fatti. Da parte comunista, non potendosi evidentemente sostenere la tesi di operazioni militarmente rilevanti - e comunque non dopo la Liberazione - si parla degli assassini come di «schegge impazzite» del movimento partigiano, individui o gruppi che avrebbero operato fuori del controllo dei comandi partigiani e per fini di vendetta personale.
    E’ difficile immaginare che ai dirigenti e ai quadri comunisti, che avevano uno stretto controllo politico e operativo delle bande partigiane, potessero sfuggire di mano delle uccisioni premeditate e realizzate spesso con modalità articolate (prelevamento, trasporto, uccisione, occultamento dei cadavere). La fedeltà al partito operante in quegli anni è tra l'altro messa indirettamente in evidenza dall'incrollabile obbedienza nel rispetto del silenzio su tali accadimenti che, successivamente, il partito comunista e le associazioni resistenziali ad esso legate sono riusciti a ottenere.
    Inoltre nessuna delle vittime di cui qui si parla aveva avuto ruoli particolarmente vessatori nei confronti di chicchessia, o si era macchiata di delitti: anche la spiegazione delle vendette personali viene così depotenziata, a meno che non si ipotizzi un «moltiplicatore», più o meno consapevole, che negli assassini rendesse adeguata l'assurda brutalità della vendetta agli eventuali torti subiti. Occorre dunque cercare una spiegazione diversa, che, come quasi sempre accade in storia, deve essere multicausale; ma le differenti motivazioni finiscono per trovare un denominatore comune in un particolare humus ideologico che giustificava, sia a livello di suggestione, che a livello di piena consapevolezza politica e di strategia rivoluzionaria, gli accadimenti.
    La guerra di Liberazione fu infatti interpretata dai comunisti non solo italiani come la fase iniziale di una rivoluzione: i comunisti italiani, in più, potevano rafforzare propagandisticamente tale interpretazione sulla base della lettura del regime fascista come braccio operativo della borghesia e di tutte le forze reazionarie del paese.Allora, se al clima già avvelenato di una guerra civile si sommano le peculiarità della prospettiva comunista, il quadro diventa non solo più chiaro, ma straordinariamente coerente con tutto quanto il comunismo ha prodotto nella storia, e che solo ora, con il crollo del sistema imperiale comunista, si sta valutando nelle sue intere proporzioni.
    La violenza rivoluzionaria e il terrorismo come indispensabili strumenti della rivoluzione sono riaffermati da tutti i padri ideologici del comunismo.
    Le vittime, per l'appartenenza economica, professionale, religiosa, erano da considerare nemici di classe: quindi, anche se non oppositori attuali, nemici potenziali nella prospettiva rivoluzionaria dell'instaurazione di un regime social-comunista, e perciò «meritevoli» di essere eliminati.
    La loro eliminazione poteva avere oltretutto funzione pedagogica nei confronti di tutta la popolazione.
    Perché non considerare poi, come si è assistito in altri contesti e in altri anni, tali gesti come richiesti od offerti alla stregua di prove tangibili di affidabilità rivoluzionaria: la dimostrazione - tanto più efficace quanto più efferata - della disponibilità totale nei confronti del partito? O ancora come un pactum sceleris tra mandanti, esecutori e gregari da allora e per sempre stretti da inscindibili vincoli di complicità? O, come tante volte è accaduto nella storia delle rivoluzioni, il tentativo di frapporre un mare di sangue tra il nuovo e il vecchio. affinché nell'animo degli uomini - dei vincitori come dei vinti nulla potesse tornare come prima?
    L'efferatezza dei delitti di allora; l'assenza successiva di qualunque forma di dissociazione o di pentimento - né politico, né umano - da parte dei responsabili, qualunque fosse il loro ruolo, diretto o indiretto, negli ammazzamenti; in qualche caso l'ostentato rammarico per non aver potuto portare a compimento l'opera di «pulizia» allora intrapresa, testimoniano abbondantemente, se ancora ve ne fosse bisogno, del disastro antropologico provocato dal comunismo.
    Il tentativo di salvare, mediante la categoria delle schegge impazzite, la globalità del mito resistenziale dell'insurrezione di popolo, che ha fondato non solo la partecipazione a pieno titolo del partito comunista nella riorganizzazione politica dell’Italia repubblicana, ma la sua egemonia, ci ricorda le parole di Francois Furet a proposito dell'atteggiamento degli intellettuali di sinistra nei confronti della Rivoluzione francese e della Rivoluzione bolscevica: «per un lungo periodo ancora ben lontano dall'essersi concluso, la nozione di deviazione rispetto a un'origine incontaminata ha consentito di salvare il valore supremo dell'idea di Rivoluzione» ma «(..) oggi il Gulag ci porta a ripensare al Terrore, in virtù dell'identità del progetto (..) L'immenso privilegio dell'idea di rivoluzione, il suo essere cioè al di sopra di qualsiasi critica interna, sta dunque perdendo il suo valore di dogma». (1)
 
(1) FRANCOIS FURET. Critica della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari, 1987, pp. 16-17.
 
 
LE RAGIONI DEI VINTI di Rossana Maseroli Bertolotti e Liano Fanti. Il volume di 201 pagine può essere richiesto al CENTRO STUDI ITALIA, al costo di lire 30.000.

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